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INTERVISTA A BUX

L'abito fa il monaco. Lo spiega anche Zalone

Paragonare l'abito religioso ad una moda passeggera, quando invece sta ad indicare uno stato di vita che permane, è contraddittorio. Anche l'espressione "l'abito non fa il monaco" dice tutt'altro di quello che oggi vuole significare. Perché il prete in abito ecclesiastico è come un vigile tra la folla: riconoscibile per la salvezza delle anime. Lo spiega anche Checco Zalone. Intervista a don Nicola Bux. 

Ecclesia 03_09_2018
Checco Zalone nela celebre scena del film Cado dalle nubi

Non è di sicuro passata inosservata una delle ultime battute del Santo Padre Francesco che in occasione dell'incontro presso l'Auletta PaoloVI rivolgendosi ai partecipanti all'“European Jesuits in formation”  ha detto ...“Quando si doveva andare dal Generale, e quando con il Generale dovevamo andare dal Papa, si portava la talare e il mantello. Vedo che ora questa moda non c'è più” aggiungendo “grazie a Dio.”

Due cose immediatamente sono balzate all'occhio: la prima e che si trattava di una “moda”, la seconda che essendo moda “non c'è più” lodando anche Dio, quasi che si tratti di un'azione di Grazia. Ne parliamo, nel tentativo di chiarirci un po' le idee con Don Nicola Bux

Don Nicola, in una scena di Cado dalle nubi Checco Zalone redarguisce benevolmente un sacerdote, vestito in abiti civili. E allora, la talare del sacerdote era solo un fatto di moda, e in quanto tale, passeggero?
La parola Sacerdote sta a indicare la “Sacra dote” di cui è costituito direttamente da Dio. L'abito del sacerdote può essere paragonato a quello dell'arbitro di calcio - l'arbitro è un mediatore - ed è necessario per ricordare a tutti l'importanza del primato della legge divina. L'abito, poi, serve ad evitare il lusso e la vanità perchè non c'è cosa peggiore per un sacerdote che ostentare un abbigliamento alla moda, per farsi notare - si dice per essere più accettabile - mentre finisce per mondanizzarsi e confondersi al fine di poter assumere comportamenti disdicevoli se non contrari alla morale.

Si potrebbe obbiettare che è più importante essere che apparire, quindi, giocando d'anticipo: “l'abito non fa il monaco”?
Questa espressione è diventata l'obiezione che ha portato a relativizzare prima, e ad abolire poi, l'abito ecclesiastico e l'abito religioso, visti come sinonimo di apparenza non corrispondente a ciò che una persona è nella realtà. Nel suo libro “L'abito ecclesiastico, sua valenza e storia”, Michele De Santi presenta un'interessante chiarificazione. Egli racconta che in passato alcuni monaci anziani ritenessero la vestizione dell'abito monastico, il momento in cui un uomo diveniva monaco. La decretale di Papa Clemente III (1187- 1191) o con maggiore probabilità di Papa Innocenzo III (1198-1216) contesta l'affermazione dicendo che è con la professione di fede che si diventa monaci. Pertanto si può considerare come, nel suo contesto originale, l'espressione “habitus non facit monachum” abbia lo scopo di far chiarezza sul momento in cui una persona diventa monaco. Questo significato è tutt'altro da quello attribuitole dalla errata interpretazione popolare, per cui l'abito non sarebbe necessario per coloro che vivono una vita consacrata al Signore. In sostanza il decreto papale afferma che l'abito, pur non essendo un elemento costitutivo che trasforma gli uomini in monaci, è però necessario per manifestare all'esterno “l'interiore onestà dei costumi”, secondo le parole del Concilio di Trento rivolte ai sacerdoti; questo soprattutto per manifestare la propria profonda e incancellabile identità dei consacrati del Signore.

Quindi, l'abito ecclesiastico non è una moda, altrimenti non mi spiego come mai, le ultime fiction televisive tipo “Don Matteo”, oppure spot pubblicitari, come quello piuttosto irriverente, nel quale un sacerdote distribuisce patatine quasi fosse la Comunione, propongano la figura del sacerdote con l'abito talare. Trattandosi di messaggi comunicati al pubblico attuale, perchè ricorrere all'abito talare che, a detta del Papa, è passato di moda?
Tra i vari aspetti che il sacerdote deve curare viene annoverato il suo abito proprio, in quanto la visibilità della sua presenza e della sua disponibilità, quale ministro di Cristo, appartiene alla disciplina, che aiuta a non cedere al conformismo, alla facile popolarità e che finirebbero per renderlo soggetto alle mode. Queste, come è noto, passano rapidamente, per poi tornare di... moda; tanto più che siamo circondati da una secolarizzazione nella quale il segno dell'abito distintivo è davvero necessario. Se fossimo in tempo di persecuzione si potrebbe anche comprendere la necessità di celare la propria identità, rappresentata dall'abito, ma siamo in tempo di secolarizzazione al punto che la Santa Sede ha dovuto chiarire che “ne il colletto romano ne una semplice croce, sono ritenuti sufficienti a rendere 'ecclesiastico' un abito e in null'altro si distingua da quello secolare” (Congregazione per il Clero, Risposta n. 95001444 del 10 febbraio 1996). Il Card. Siri ammoniva: “I sacerdoti si guardino bene dal favorire - col loro vestito, col modo con cui lo portano, col tratto imitato dal mondo, con l'esibizione di cose e atteggiamenti loro non pertinenti - i fedeli a disattendere la loro sacra dignità e il loro ministero ( Cfr. L'immutabile sacerdozio, Brescia 1990, pag. 109). Se solo si pensa al fatto che l'abito sia stato ostacolato o addirittura proibito da stati laicisti, affinchè il sacerdote scomparisse nella massa, si comprende quale gravissimo danno ne riceverebbe il suo apostolato.

Mi sono tornate in mente le raccomandazioni che mio padre mi rivolgeva quando ero bambino, qualora mi fossi smarrito tra la folla: “Se ti perdi, non ti disperare, è inutile piangere, cerca subito un vigile e digli che ti sei perso; non ti preoccupare perchè nelle sue mani sei al sicuro”. Quante anime smarrite, alla sola vista della “divisa” del prete, provano un senso di sollievo, come davanti a qualcuno che possa dargli conforto?
Diverse sono le testimonianze prodotte da De Santi: in specie quelle della signora che piangeva disperata perchè il marito stava morendo, e vedendo un gruppo di giovani tra i quali un sacerdote identificabile grazie al clergyman, gridava in modo accorato: “Venga, che mio marito sta morendo”. L'esperienza mi conferma che nei viaggi e in tanti altri luoghi, non pochi, quando vedono un sacerdote – identificabile dall'abito distintivo - si avvicinano per chiedere consiglio, e persino per confessarsi, in quanto il sacerdote è l'uomo di Dio, per chiunque e in qualunque momento. Toccante è anche la testimonianza del sacerdote francescano che faceva l'assistente scout, al quale fu detto da chi guidava il campo: “Voi francescani con il vostro abito avrete sempre qualcosa da dire al mondo”. Proprio il fatto che S. Francesco rinunziò ai vestiti secolari per rivestire l'abito religioso, dovrebbe far comprendere meglio di ogni altra cosa, quanto esso sia importante per testimoniare la nostra estraneità al pensiero mondano, al fine di poter portare al mondo il pensiero di Cristo, che solo può salvarlo. Il fatto che oggi molti sacerdoti religiosi abbiano abbandonato l'abito loro proprio, è uno dei segni più evidenti della crisi della Chiesa. Quindi, paragonare l'abito religioso ad una moda passeggera, quando invece sta ad indicare uno stato di vita che permane, è contraddittorio. A meno che non si pensi che non si diventi più “Sacerdote per sempre”.