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LA SINDROME POST-ABORTIVA

La Vigna di Rachele, dove la vita è aiutata a rinascere

La frequentano coppie sposate, madri, padri, nonni e familiari di bambini abortiti, così come personale sanitario coinvolto nell’aborto. Un bel miracolo.

Attualità 01_03_2011
La Vigna di Rachele

 

Mezzo pianeta si affanna da tempo per rivendere l’aborto impacchettato sotto la speciosa etichetta della “salute riproduttiva”. Intanto in India una sentenza dell’alta corte di Delhi, glossa l’avvocato Sukti Dhital dello Human Rights Law Network, stabilisce che «la mortalità materna è una violazione dei diritti umani». Ora, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità mostra che la mortalità materna si riduce nei Paesi in cui vigono legislazioni a favore del diritto alla vita, c’è chi teme che il caso indiano rilanci quel cortocircuito logico secondo cui sarebbe l’accesso semplificato all’aborto lo strumento adatto a implementare la tutela di quel nuovo “diritto umano”. Per esempio lo temono i pro-lifer del Parliamentary Network for Critical Issues (PNCI), diretto a Washington da Marie Smith, consorte del deputato Repubblicano Christopher H. Smith, del New Jersey.

Quello della “salute riproduttiva”, infatti, è un tragico sofisma. In questa gara assurda tra madre e figlio concorrenti a perdere ci si scorda che, quando la vita che abbandona il corpo è quella del feto, l’anima della madre che sopravvive ne esce distrutta. Lo sa bene la psicoterapeuta cattolica di Filadelfia Theresa Karminski Burke, che assieme al marito Kevin (assistente sociale e supervisore clinico) nel 1997 ha creato apposta Rachel’s Vineyard, ossia una organizzazione che si prende cura delle donne che hanno abortito e che con coraggio affronta assieme a loro uno dei temi più politicamente scorretti e quindi censurati che esistano: l’inferno terrestre in cui sprofondano le madri devastate che hanno scelto la morte delle proprie creature e che semplicemente alla cultura abortista non risultano. Problemi psicologici, affettivi e religiosi: tutto viene messo in comune e affrontato in quei ritiri del week-end che sono divenuti il feature mondiale della Vineyard e che più spesso di quanto si possa essere portati a credere vengono benedetti da avvenimenti al limite dell’umanamente credibile, confessioni, conversioni, testimonianze che, dopo avere strapazzato il cuore e la mente, lo nutrono di acqua santa. Alcune delle protagoniste della Vineyard sono ora vere missionarie della vita che mettono a disposizione di tutti la propria esperienza di grevità e speranze, tenebre e luce.

Il nome dell’operazione viene dal libro di Geremia (31, 15-17): «Così dice il Signore: “Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più”. Dice il Signore: “Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c'è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico. C’è una speranza per la tua discendenza [...]”». Oggi i ritiri offerti dalla Vineyard sono 600 all’anno in 47 degli Stati Uniti d’America e 17 altri Paesi (Canada, Portogallo, Irlanda, Gran Bretagna, Malta, Russia, Australia e Nuova Zelanda, Hong Kong, Taiwan, nonché diversi luoghi dell’Africa e dell’America Latina). Frequentati da coppie sposate, madri, padri, nonni e familiari di bambini abortiti, così come da personale sanitario coinvolto nell’aborto, rendono palpabile quanto larga e concreta sia la ferita tanto dell’aborto quanto del trauma che avvilisce chi vi è passato. Nella Vineyard nessuno è giudicato, nessuno scrive sulla sabbia i peccati di chi non ha titoli per scagliare la prima pietra: le lebbrose del nostro tempo vengono invece accompagnate giù nell’ade per risalire, assieme, la china verso il cielo.

Dal 2003 l'apostolato della Vineyard è sponsorizzato ufficialmente dall’ambiente umano di quel vero e proprio network di caritativa a favore della vita che è “Priests for Life”, diretto dal leader indiscusso della “nuova generazione” degli antiabortista statunitensi, il sacerdote cattolico Frank A. Pavone. Sotto la sua ala si moltiplicano uno dopo l’altro gruppi e agenzie, anche interconfessionali, fra cui spiccano - dopo la Vineyard (don Pavone ne è il direttore pastorale) e l’apostolato “Gospel for Life” sotto la cui egida opera il citato PNCI - la campagna cattolico-anglicana “Silent No More” (l’outing di madri e padri passati per il dramma dell’aborto) e l’African-American Outreach diretto da Alveda King, nipote di Martin Luther King, per la quale il movimento dei diritti civili di ieri è oggi il movimento pro-life.

Oggi la Vineyard esiste anche in Italia, si chiama La Vigna di Rachele ed è coordinata da Monika Rodman Montanaro che opera assieme al cappellano dell’ospedale di Caserta, il padre cappuccino Rosario Perucatti, e alla psicologa Valeria D’Antonio. Con il nihil obstat della Chiesa e la benedizione del cardinale Renato Martino, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, la Vigna agisce sovente - ma non solo - attraverso il Progetto Rachele, cioè l’iniziativa originariamente messa a punto dall’attivista Vicki Thorn nel 1984 nell’Arcidiocesi di Milwaukee, nel Wisconsin, che consiste nell’offrire consulenze individuali ma oggi anche servizi specifici di assistenza su base diocesana.

La Vigna ha già tenuto tre ritiri a Bologna in luglio, a novembre e in febbraio. La chiave di tutto è il perdono, il sapersi perdonare. Per l’uomo è cosa difficilissima da farsi, ma è questo l’insegnamento per tutti che Gesù consegnò all’adultera.