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SIRIA

La sporca guerra giocata sulla fame di Madaya

Il convoglio di 44 camion della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa - sotto l'egida dell'Onu - alla fine è arrivato a Madaya, la cittadina a 25 chilometri a ovest di Damasco, sulle montagne del Qalamoun (al confine con il Libano), diventata nelle ultime settimane il nuovo luogo simbolo della guerra in Siria. Madaya il posto dove si muore di fame per l'assedio delle milizie di Hezbollah, alleate del presidente siriano Assad. 

Esteri 14_01_2016
Bambini alla fame a Madaya

Il convoglio di 44 camion della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa - sotto l'egida dell'Onu - alla fine è arrivato a Madaya, la cittadina a 25 chilometri a ovest di Damasco, sulle montagne del Qalamoun (al confine con il Libano), diventata nelle ultime settimane il nuovo luogo simbolo della guerra in Siria. Madaya il posto dove si muore di fame per l'assedio delle milizie di Hezbollah, alleate del presidente siriano Bashar al Assad. 

Madaya buona - oggi - per rilanciare almeno il fronte mediatico di una battaglia, in quella zona, ormai persa sul campo: basta guardare una cartina aggiornata per capire che si tratta di una posizione militarmente indifendibile per il fronte dei ribelli siriani. Eppure - se tenuta a soffrire e trasformata in hashtag, con relativa campagna in cui arruolare senza troppe distinzioni le risorse utili alla causa (comprese immagini di altre tragedie spacciate per nuove) - può venire lo stesso utile. Perché in Siria siamo alla vigilia dell'ennesimo tavolo negoziale che si dovrebbe aprire a Ginevra il 25 gennaio sotto l'egida dell'Onu.

Vuole dire che le sofferenze di Madaya sono inventate? Certamente no: tante testimonianze attendibili dicono che la situazione è insostenibile. In tutte le guerre gli assedi sono una cosa terribile, con le sofferenze inflitte alla popolazione civile (a proposito: ne sanno qualcosa anche ad Aleppo, dove le stesse milizie assediate a Madaya hanno più volte in questi anni interrotto le forniture d'acqua ai quartieri sotto il controllo delle forze alleate di Assad). Vedere però Madaya utilizzata dagli strateghi sauditi della comunicazione sul nuovo account twitter @infographic_ksa, gettata tra una carico da novanta e l'altro nella guerra delle (per ora) parole con l'Iran, almeno il sospetto che non si tratti solo di un'emergenza umanitaria dovrebbe sollevarlo. Nota a margine: tra le lingue attraverso cui @infographic_ksa ha scelto di diffondere il suo disegno corredato dai dati su Madaya, oltre ad arabo, inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo e cinese figura anche l'ebraico. 

Sì, i sauditi adesso si rivolgono senza mediazioni anche all'opinione pubblica israeliana; ovviamente, però, per parlare di quanto sta a cuore a loro, non di ciò che succede a Gerusalemme... Dentro a tutto questo, dunque, va inserita la preoccupazione per i civili di Madaya - che come ricordava qualche giorno in un'intervista ad AsiaNews il patriarca melchita Gregorio III Laham, forse oggi non sono ostaggio proprio solo di Hezbollah (clicca qui). Però vale la pena di tenere a mente anche che cosa in teoria dovrebbe succedere a partire dal 25 gennaio intorno alla Siria.

Negli ultimi giorni del 2015, infatti, era stato il mediatore dell'Onu Staffan de Mistura a convocare per questa data i nuovi colloqui previsti dall'ultima risoluzione sulla Siria, quella adottata all'unanimità dal Consiglio di sicurezza dell'Onu il 18 dicembre scorso. Un atto salutato un po' troppo ottimisticamente come una svolta, con l'indicazione di una road-map che dovrebbe comprendere come primo passo l'accordo su un cessate il fuoco tra le forze fedeli al governo di Damasco e almeno la parte dei ribelli ufficialmente sancita da un sostegno internazionale. Nelle intenzioni dell'Onu questo cessate il fuoco sarebbe la premessa alla costituzione di un governo di unità nazionale, incaricato di traghettare il Paese nel giro di due anni verso nuove elezioni presidenziali. 

L'unica vera novità di tutto questo percorso sta, però, nella sua ambiguità: Stati Uniti e Francia hanno rinunciato a esplicitare come precondizione l'uscita di scena di Bashar al Assad. Ma la risoluzione non dice nemmeno che resterà e - dunque, nella migliore tradizione dell'Onu -, ciascuno interpreta la risoluzione come gli pare.  Per di più nel frattempo l'Arabia Saudita il 2 gennaio ha lanciato la sua offensiva anti-iraniana con l'esecuzione dell'imam sciita Nimr al-Nimr e tutto quello che ne è seguito. Il che non è esattamente il contesto migliore per un negoziato che - come chiunque ormai ha capito - serve soprattutto a mettere intorno a un tavolo a discutere del futuro della Siria le due potenze regionali e i loro alleati, cioè quelli che tirano le fila del conflitto. 

Proprio per questo nelle ultima settimane Riyad ha serrato i ranghi del fronte sunnita, con una girandola di incontri diplomatici. Anche perché sul terreno le cose per loro non si stanno mettendo per niente bene: a nord ovest avanzano le truppe lealiste sostenute dall'aviazione russa (proprio l'altro giorno hanno strappato ai ribelli il controllo di Salma, un'altra cittadina vicina al confine con la Turchia); a nord est avanzano invece i curdi, avvertiti sempre di più come una presenza ostile dalle milizie sunnite. In mezzo c'è Aleppo, la città martire che è anche il nodo cruciale per le sorti di questo conflitto. 

Riuscirà - dunque - il negoziato che si apre il 25 gennaio a partorire quella soluzione politica che permetta a tutti di salvare la faccia evitando nuove carneficine? I sauditi oggi mostrano i muscoli, ma continuano ugualmente a ripetere che lo scontro con Teheran non pregiudicherà il negoziato di Ginevra. E la Turchia si trova adesso anche a pagare in casa propria il prezzo delle tante ambiguità mantenute nel suo rapporto con l'Isis. La verità è che oggi il tempo in Siria non sembra più giocare a favore dei due principali sponsor delle milizie sunnite. E forse - alla fine - proprio questo potrebbe risultare l'unico asso nella manica nel nuovo round di negoziati.