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BALCANI

Kosovo, basta un treno per far scoppiare la crisi

Un solo treno può far precipitare la situazione in Kosovo. Partiva da Belgrado, diretto a Kosovska Mitrovica, l'enclave serba del Kosovo. Era dipinto coi colori della bandiera serba e la scritta "il Kosovo è Serbia". Questo è bastato per far scattare una mobilitazione albanese e provocare una crisi diplomatica.

Esteri 21_01_2017
Il treno della discordia

Lo scorso sabato 14 gennaio è stato ripristinato, dopo 18 anni di fermo, il treno diretto Belgrado-Kosovska Mitrovica, l’ultima città del Kosovo in cui la comunità serba conserva una presenza significativa. Il viaggio, però, non solo non si è concluso come auspicato, ma ha causato una crisi diplomatica fra Belgrado e Priština.

Quest’ultima, infatti, si è dichiarata indignata dalla scritta “il Kosovo è serbo” riportata in oltre venti lingue sui vagoni e dagli interni dedicati ai Monasteri ortodossi presenti nell’ex provincia meridionale. Non sorprende, quindi che il Presidente Thaci abbia ordinato di bloccare il convoglio “a qualsiasi costo”, anche impiegando i reparti speciali delle Forze dell’Ordine, e che il Governo abbia fatto sua questa posizione, criticando anch’esso la decisione della Serbia di autorizzare una “provocazione” di quel tipo. Al Premier Vu?i?, quindi, non è rimasto altro da fare se non ordinare al macchinista di invertire la marcia, una scelta a suo dire obbligata dal fatto che aveva ricevuto notizie secondo cui la Polizia kosovara aveva minato alcuni tratti della ferrovia ed era entrata in alcune enclavi abitate esclusivamente da serbi pur non avendo la necessaria autorizzazione della KFOR e delle Autorità locali. Anche quest’ultimo aspetto è stato oggetto di un aspro confronto, in quanto per le comunità ortodosse rimaste è inconcepibile che le Autorità kosovare esercitino le funzioni di polizia all’interno delle enclavi, una tesi sostenuta anche dal Ministro degli Esteri russo Lavrov, ma che non ha trovato d’accordo i vertici della Missione NATO, secondo cui Priština non necessita di alcun placet preventivo. 

La decisione serba di organizzare un’azione come quella descritta, pur sapendo che molto probabilmente il Kosovo avrebbe reagito duramente, pare essere motivata da una serie di ragioni, tra le quali spicca certamente l’imminente appuntamento elettorale che porterà all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Per quanto il partito dell’attuale Capo di Stato Nikoli? e del Primo Ministro Vu?i? possa contare su una solida maggioranza relativa, infatti, i due non sono tranquilli, sia perché il primo, che vorrebbe correre per un nuovo mandato, non è un candidato forte, sia perché le opposizioni paiono aver trovato in Vuk Jeremi?, ex Ministro degli Esteri e Presidente dell’Assemblea Generale dell’ONU, l’uomo giusto per rilanciarsi dopo anni passati in sordina. Oltre a ciò, un ruolo significativo potrebbe essere stato giocato dalla volontà di vendicarsi dello smacco seguito all’arresto e al rilascio da parte della Francia di Hamush Haradinaj ex leader dell’UCK accusato di crimini di Guerra dalla Serbia, ma difeso a spada tratta da Priština, sempre recalcitrante a prendere provvedimenti nei confronti dei vertici dell’Esercito di Liberazione. Infine, non va dimenticato che l’elezione di Trump rappresenta una grande speranza per i serbi, fiduciosi che il nuovo Presidente statunitense sarà meno interessato di Obama agli equilibri balcanici e, soprattutto, meno orientato a prendere le parti delle popolazioni di fede musulmana a scapito di quelle cristiane (soprattutto se ortodosse). 

Da parte kosovara, invece, l’occasione è stata sfruttata per ingigantire al massimo la vicenda, forse proprio per sfruttare al meglio gli ultimi giorni della Presidenza uscente degli USA e avere una carta da giocare nel prossimo futuro quando verrà messa in discussione la presenza delle truppe KFOR nel Paese. Queste ultime, infatti, non sono particolarmente ben accette da parte di Priština, che le vede come l’ennesima dimostrazione della propria limitata sovranità, mentre sono considerate fondamentali da Belgrado, che le ritiene le uniche forze in grado di proteggere i propri connazionali e i propri beni culturali (monasteri, chiese, etc.) dalle ancora frequenti violenze dei kosovari. 

In conclusione, la vicenda dimostra, ancora una volta, come anche un semplice treno sia in grado di far surriscaldare gli animi e quanto infruttuosa sia stata la politica perseguita sino ad ora nella zona. È auspicabile, quindi, che di fronte ai mutamenti avvenuti a Washington e, pare, ad una maggiore sensibilità di Bruxelles per quanto accade lungo il suo confine sud-orientale, vengano proposte nuove linee di azione, in grado di risolvere una volta per tutte la disputa territoriale. Per farlo, sarebbe opportuno valutare di concedere a Belgrado degli incentivi e non utilizzare principalmente le minacce. I serbi, infatti, hanno più volte dimostrato quanto siano ancora attaccati ad un territorio che per loro ha lo stesso valore che ricopre Roma per l’Italia e che, materialisticamente parlando, dispone anche di una delle più grandi miniere d’Europa.