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MEDIO ORIENTE

Israele contro Hamas: due opzioni, un solo grande rischio

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Israele si trova davanti a un dilemma strategico: conquistare tutta Gaza ed eliminare i miliziani di Hamas oppure limitare i raid militari e permettere ad Hamas di sopravvivere compromettendo la credibilità della propria politica di sicurezza.
- Quando ci vanno di mezzo i civili: una valutazione moraledi Tommaso Scandroglio

Esteri 16_10_2023 English

La nuova, feroce, guerra tra Israele e Hamas sta dividendo il mondo e l’opinione pubblica in Occidente tra chi giustifica la reazione israeliana agli spietati attacchi compiuti sul suo territorio dalle milizie jihadiste palestinesi e chi invece considera i palestinesi eterne vittime dei soprusi e della “occupazione” israeliana. Come spesso accade quando è la propaganda intrisa di valutazioni e speculazioni umanitarie a farla da padrona su entrambi i lati della barricata, sono i temi fondamentali di carattere politico e strategico a restare nell’ombra.

La motivazione che ha spinto Hamas (e i suoi sponsor) a scatenare un attacco così brutale al territorio israeliano la notte tra il 6 e 7 ottobre (cinquant’anni dopo l’attacco delle truppe egiziane siriane nella Guerra dello Yom Kippur del 1973) è infatti di natura politica e strategica: bloccare il processo di normalizzazione dei rapporti tra lo Stato Ebraico e diversi paesi arabi noto come Accordi di Abramo. Finora sono stati firmate intese di questo tipo tra Gerusalemme ed Emirati Arabi, Sudan, Bahrein, Marocco mentre erano in corso trattative con l’Arabia Saudita. Nazioni arabe che si sarebbero aggiunte a Egitto e Giordania che già da molti anni hanno normali relazioni con Israele.

L’attacco di Hamas e la ferocia delle sue milizie nell’uccidere e sequestrare anche i civili israeliani sembra quindi avere avuto il solo scopo di umiliare Israele e scatenarne la furia ben evidenziata dalle parole del primo ministro Benyamin Netanyahu, che non ha parlato di “rappresaglia” o di “spedizione punitiva” nei confronti delle milizie palestinesi bensì di “vendetta”, termine non molto usuale nel vocabolario di uno statista.
L’attacco di Hamas sta infatti determinando una violenta risposta militare di Israele che inevitabilmente provocherà molte vittime tra la popolazione, di fatto ostaggio di Hamas che da sempre impiega come scudi umani gli abitanti della Striscia come fanno solitamente tutte le milizie irregolari e in particolare quelle jihadiste, dai talebani all’Isis.

Hamas ha pianificato perfettamente l’offensiva in territorio israeliano, inclusa l’eliminazione di civili e giovanissimi, ma di certo si è preparata molto bene anche a fronteggiare l’invasione israeliana di Gaza minando strade e incroci, trasformando le cantine in bunker, preparando il territorio per difendersi in maniera strenua utilizzando i tunnel e i depositi sotterranei realizzati con il supporto dei consiglieri militari iraniani e i soldi del Qatar.

L’obiettivo è la carneficina dei civili da sbattere mediaticamente in faccia all’opinione pubblica dell’Occidente e del mondo arabo per indurre la prima a premere su Israele affinché fermi o moderi gli attacchi e la seconda a esercitare pressioni sui rispettivi governi affinché interrompano ogni relazione con Israele.
Per conseguire questo risultato Hamas considera I civili palestinesi come quelli israeliani nonché i suoi stessi miliziani: nient’altro che pedine sacrificabili, favoriti paradossalmente da Israele, dove lo sterminio dei suoi cittadini ha determinato rispetto al passato un approccio meno attento ai cosiddetti “danni collaterali” tra la popolazione palestinese.

In appena una settimana Hamas può già cantare parzialmente vittoria. L'Arabia Saudita ha sospeso i colloqui con Israele mentre altre nazioni che hanno già riaperto i rapporti mostrano insofferenza verso la risposta militare di Gerusalemme. Meglio non dimenticare che tra i numerosi Paesi che hanno espresso solidarietà ad Hamas vi sono il Qatar, l’Iran, la Siria, la Tunisia e l’Algeria. Il recente accordo mediato da Pechino che ha riportato il dialogo tra l’Iran e le monarchie sunnite del Golfo sta creando nell’attuale contesto il rischio che Teheran e Riad adottino una posizione comune nei confronti dell’offensiva israeliana a Gaza.

Uno scenario che favorirebbe il prendere piede di una mediazione tra Israele e Hamas da parte della Cina e forse anche della Russia, incentrata sulla liberazione degli almeno 150 ostaggi israeliani trasferiti nella Striscia di Gaza. La posizione assunta da Pechino e Mosca, che a differenza dell’Occidente non hanno preso nettamente posizione al fianco di Gerusalemme né espresso condanne esplicite agli attacchi di Hamas, ha determinato forti critiche in Europa ma sembra avere il chiaro obiettivo di porre russi e cinesi nelle condizioni migliori per potersi porre come negoziatori in questa crisi.

Le opzioni sul piano diplomatico in mano ad Israele sono però davvero poche. Dopo l’affronto subito gli israeliani oggi devono ripristinare ad ogni costo le condizioni di sicurezza nelle regioni meridionali e per conseguire tale obiettivo dovranno spazzare via Hamas da Gaza, anche combattendo casa per casa a prezzo di perdite ingenti (oltre 260 finora i caduti tra le truppe israeliane). Ogni altro esito dell’attuale campagna militare costituirebbe una sconfitta per Israele, militare, politica e reputazionale.
Sintetizzando Israele per vincere deve cancellare una volta per tutte la milizia jihadista palestinese, ad Hamas per vincere basta sopravvivere.

In prospettiva, Israele deve fare i conti con il fallimento del progetto caldeggiato da Stati Uniti ed Europa con fortissime pressioni e che prevedeva la cessione di territori in cambio di pace. Nel 2000 il governo del laburista Ehud Barak ordinò il ritiro dalla fascia di sicurezza occupata nel Libano del Sud. Barak lo fece in cambio della garanzia che nessuno avrebbe attaccato Israele dai confini libanesi. Ma in realtà Hezbollah prese il controllo del confine e, con il pretesto che gli israeliani non avevano abbandonato le Fattorie di Shebaa, un fazzoletto di terra al confine tra Israele, Libano e Golan siriano occupato, continuò a colpire Israele con sempre maggiore intensità grazie anche ad armi, fondi e addestramento garantiti dai pasdaran iraniani.
Tra l’altro le milizie Hezbollah si sono attestate in una posizione di vantaggio su colline da cui si domina la Galilea fino ad Haifa, nel raggio d’azione dei razzi della milizia scita.

La Striscia di Gaza è già stata “il Vietnam di Israele” che si ritirò nel 2005 da quel territorio per volere del premier Ariel Sharon, un “falco” che sfidò l’opinione pubblica smantellando anche gli insediamenti ebraici per completare il progetto “Territori in cambio di pace” consegnando la Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese che ne perse il controllo nel 2007, quando Hamas eliminò in combattimento e con esecuzioni sommarie tutti gli uomini di al-Fatah dando il via alla militarizzazione jihadista per riprendere la lotta contro Israele.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la ripresa delle ostilità con Hezbollah, anche se per ora a bassa intensità, sanciscono quindi il completo fallimento di quel progetto e la “beffa” di quegli accordi che avrebbero dovuto portare alla pace e che invece hanno solo fatto perdere a Israele regioni “cuscinetto” a protezione del territorio nazionale, facilitando così l’espandersi e il rafforzarsi di nemici sempre più agguerriti a ridosso dei suoi confini.

Israele si trova quindi di fronte a un dilemma strategico: conquistare tutta la Striscia di Gaza ed eliminare i miliziani di Hamas ripristinando una fascia di sicurezza a difesa dei suoi confini meridionali ma compromettendo anni di lavoro diplomatico per la normalizzazione delle relazioni con gli arabi, oppure limitare i raid militari e permettere ad Hamas di sopravvivere compromettendo la credibilità della propria politica di sicurezza.