Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL BUON USO DELLE PAROLE / 12

Il successo di un discorso si decreta alla fine

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Nell’oratoria la vittoria è decretata alla fine. Per vittoria s’intende qui non tanto la supremazia di un retore su di un altro, ma il piacevole effetto che uno scritto, un libro, un film, un discorso possono aver provocato sull’uditorio.

Cultura 22_04_2024

Tutti noi abbiamo sperimentato quella reazione emotiva a causa della quale un film, che magari ci ha piacevolmente stupito per quasi tutta la pellicola, ci delude profondamente nella conclusione e per questo torniamo a casa con la tristezza nell’animo e senza quel trasporto che ci porterebbe a suggerire agli amici e a conoscenti di recarsi nelle sale ad assistere alla proiezione.

La stessa reazione proviamo al termine della lettura di un romanzo che ci deluda nell’epilogo. L’emozione che il retore desta alla fine della sua orazione è fondamentale, perché garantisce che l’uditorio e gli spettatori siano compartecipi nella rappresentazione, si identifichino nei sentimenti trasmessi dal libro, dal film, dal discorso e acconsentano al giudizio, all’opinione, al finale.

Per questa ragione possiamo usare la metafora del gioco delle carte di briscola. Le carte buone (quelle forti, di briscola, dal valore alto come l’asso, il tre, il re o la donna che permettono di vincere le ultime mani) non devono essere utilizzate tutte subito all’inizio, ma vanno conservate anche per l’ultima fase del gioco, quando magari si possono ottenere ancora molti punti. La partita di carte si vince alla fine: il giocatore può aver raccolto molte carte, ma non ha ancora raggiunto la vittoria certa.

Fuori di metafora, nell’oratoria accade lo stesso. La vittoria è decretata alla fine. Per vittoria s’intende qui non tanto la supremazia di un retore su di un altro, ma il piacevole effetto che uno scritto, un libro, un film, un discorso possono aver provocato sull’uditorio. Per questo motivo è fondamentale prestare molta attenzione alla cura dell’epilogo (o perorazione) che conclude il discorso. La perorazione è costituita da due parti: la ricapitolazione degli argomenti affrontati (detta anamnesi in greco) e la mozione degli affetti.

La ricapitolazione consiste nell’enumerazione degli argomenti affrontati nell’orazione. Nei discorsi orali questa parte svolge l’importante compito di richiamare alla memoria all’uditorio i punti fondamentali del discorso. L’oratore persegue in questo caso il fine del probare ovvero informare e dimostrare.

La mozione degli affetti avviene attraverso l’indignazione, grazie alla quale «si ottiene l’effetto di suscitare un odio grande verso un uomo, o un profondo sdegno per un’azione» (Cicerone, De inventione), o con la compassione (commiseratio) che permette di ottenere il coinvolgimento affettivo degli ascoltatori. In questo caso il fine perseguito dal retore è il flectere o movere.

Riprendiamo due note perorazioni che derivano da esempi che abbiamo analizzato quando abbiamo affrontato l’esordio: la prima Catilinaria di Cicerone e l’orazione di Pier della Vigna. Nell’anno in cui raggiunge la più alta delle cariche Cicerone sventa la congiura di Catilina, denunciandola apertamente in Senato. È il momento in cui ottenne il plauso di molti e il riconoscimento di essere padre della patria.

Nell’esordio, invece di interloquire con i senatori, Cicerone parla direttamente con Catilina («Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza?») avvalendosi dell’uso della figura retorica dell’ex abrupto («all’improvviso»). Così, senza alcun preambolo, l’oratore attacca l’avversario, cogliendolo impreparato. Il colpo dell’oratore centra subito il bersaglio, perché il destinatario non ha tempo di parare i colpi e si sente smascherato.

Nell’epilogo, Cicerone apostrofa prima Catilina consigliandolo di partire per preparare quella guerra «empia e nefasta» che lo porterà alla «più orrenda delle morti». Poi si rivolge direttamente a Giove:
Tu, Giove, il cui culto fu istituito da Romolo con gli stessi auspici che lo portarono alla fondazione di Roma, tu che non a torto sei chiamato paladino di questa città e dell’impero, proteggi da questo individuo e dai suoi partecipi allo scellerato progetto i tuoi templi e degli altri dèi, le abitazioni e le mura della città, la vita e i beni di (tutti) i cittadini. Condanna con sofferenze infinite, nella vita e nella morte, questi uomini contrari agli onesti, nemici della patria, predatori dell’Italia che un patto scellerato e una complicità di morte hanno messo insieme.

Questa parte conclusiva desta l’indignazione nei confronti di Catilina e di quanti hanno preso parte allo scellerato progetto e crea, al contempo, compassione e compartecipazione emotiva, perché Cicerone dipinge le immagini dei luoghi sacri, delle città, delle case, dei beni e della vita di tutti i cittadini romani: tutti questi beni, tutti questi valori sono messi a repentaglio dall’audacia malvagia di uomini nemici di Roma e dell’Italia. Cicerone divide i Romani in due parti e non lascia scampo ai senatori: i buoni sono quanti si schierano contro «il patto scellerato» e la «complicità di morte» di cui si è reso artefice Catilina.

Nell’orazione di Pier della Vigna, meraviglioso esempio di sintesi retorica in soli ventiquattro versi, la perorazione occupa gli ultimi sei versi e si avvale sia della ricapitolazione che della mozione degli affetti:
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ‘nvidia le diede.

Movendosi come un imputato che non ha potuto scagionarsi in vita e perciò lo fa da morto, l’anima di Pier della Vigna giura sulle «nove», cioè strane, «radici», non sulla propria mano, dal momento che il dannato ha perduto per sempre le fattezze umane. Destando compassione, l’anima spera di ottenere il favore dell’interlocutore che deve portare sulla Terra la fama di innocenza, rinverdire la memoria del buon operato, dell’onestà e della fedeltà di colui che fu segretario del grande imperatore.

Ecco, però, il colpo di scena finale: mentre presenta tale richiesta, il segretario rivela il nome della colpevole, identificandola con l’invidia, destando così l’indignazione nei confronti di uno dei vizi peggiori, spesso responsabile delle discordie civili che sorgono all’interno di un consorzio umano e di una città, ma anche sorgente di tanti altri peccati. La perorazione di Pier della Vigna è svolta con ordine, sintesi e perizia espressiva, competenze retoriche proprie di un uomo che ricopriva importanti incarichi alla corte di Federico II.

Di certo l’epilogo è fondamentale, ma il retore dovrà essere certo di aver conservato l’attenzione del pubblico fino a quel momento.