Il neocolonialismo europeo al sinodo dell’Amazzonia
Il prossimo sinodo dell’Amazzonia vorrebbe essere un esempio di Chiesa in uscita verso una periferia del mondo per imparare da essa piuttosto che per insegnare, per farsi evangelizzare piuttosto che per annunciare.
Il prossimo sinodo dell’Amazzonia vorrebbe essere un esempio di Chiesa in uscita verso una periferia del mondo per imparare da essa piuttosto che per insegnare, per farsi evangelizzare piuttosto che per annunciare. Il sinodo, insomma, metterà al centro l’Amazzonia e non la Chiesa. Saranno i popoli indigeni, in quanto ritenuti detentori di una buona vita di rapporti cordiali con la Madre Terra e di relazioni solidali tra di loro, ad essere il punto fermo da cui guardare il messaggio cristiano e la pastorale della Chiesa, e da cui farsi interrogare. Il sinodo, quindi, sarà amazzonico e non europeo anche se si terrà a Roma e non in Amazzonia. Sarà latinoamericano, autoctono, incentrato su una periferia del mondo e non pensato nelle università cattoliche europee. La teologia che lo animerà sarà una teologia induttiva, dal basso, nata in situazione, emersa dalle popolazioni indigene e dalla loro condizione di sfruttamento e non la teologia dei Paesi ricchi e sfruttatori dell’Europa o dell’America del Nord.
Ma è veramente così? Questa prospettiva di teologia dalla situazione, che nasce dal mondo e dalla storia e non dalla Chiesa, è precisamente la prospettiva principale della nuova teologia europea dal Concilio in poi. L’approccio al problema è importato dalle avanguardie teologiche di Friburgo o di Tubinga. È la teologia a sfondo rahneriano e kasperiano ad affermare che Dio si comunica nel mondo, nelle situazioni esistenziali, nella storia e non nella Chiesa, oppure anche nella Chiesa ma in quanto anche essa è mondo e rincorre il soffio dello Spirito mettendosi in ascolto del mondo e non pretendendo di insegnargli qualcosa.
Può essere interessante verificare tutto questo nell’uso delle preposizioni articolate. Non lo riteniate una perdita di tempo da appassionati di grammatica o di enigmistica. Le preposizioni articolate rivelano molto.
Per esempio, se uso l’espressione teologia della liberazione si può pensare che la situazione di dipendenza/liberazione dei popoli latinoamericani in cui l’espressione viene usata sia l’oggetto della riflessione teologica: la teologia come riflessione sulla liberazione. In questo caso il punto di vista è quello della fede apostolica, mentre la situazione storica dei popoli latinoamericani non illumina ma viene illuminata. Però molti teologici della liberazione – ricordo per esempio Hugo Assmann – preferivano adoperare l’espressione teologia dalla prassi di liberazione, usando la preposizione articolata dalla piuttosto che della: le preposizioni articolate, come si vede, fanno la differenza. In questo caso la situazione sociale e storica di dipendenza/liberazione diviene il punto di vista da cui considerare la teologia e non viceversa. La luce viene dalla situazione storica e non dalla fede apostolica ed è questa a dover imparare da quella e non il contrario. Anche molti teologi che continuarono ad usare l’espressione della liberazione si impegnavano però a chiarire che la intendevano come se adoperassero l’espressione dalla liberazione. Ed infatti la novità della teologia della liberazione è proprio questa, ossia di porre la situazione storica al primo posto e di considerare la teologia come “atto secondo” (così scriveva Gutierrez nel 1972).
Lo stesso può dirsi per la cosiddetta teologia del popolo. Si può pensare che il popolo sia il terminale della riflessione teologica, l’oggetto a cui essa si applica dall’alto e dal di fuori. Per questo motivo molti, come per esempio J.C. Scannone, dicono che si tratta di una teologia dal popolo e non del popolo, nel senso che il popolo ne è il co-autore dato che si tratta di una teologia che assume il dato mondano come costitutivo dell’annuncio cristiano, il quale è da considerarsi completamente storico, ossia non come uno sguardo sulla storia, ma dalla storia. Tornano le preposizioni articolate nel senso già ricordato sopra. Del resto, l’espressione “teologia del popolo” può essere anche intesa come se il popolo ne fosse il soggetto, l’attore, l’origine, il proprietario. Allora dire teologia del popolo o dal popolo sarebbe la stessa cosa. Ciò che in ambedue le versioni viene escluso è uno sguardo che provenga da una fonte esterna e superiore, come la teologia ha sempre pensato prima della svolta della teologia contemporanea.
Allora, sinodo dell’Amazzonia non vuol dire che i popoli indigeni siano l’oggetto della riflessione da parte di una teologia che trova già altrove il suo punto di vista principale, ma soggetto di una teologia che parte proprio da lì, dalla loro situazione storica, una teologia che essi hanno in qualche modo già scritto nella loro esistenza storica.
La teologia della liberazione, la teologia del popolo, il sinodo dell’Amazzonia hanno pensato e pensano di esprimere una teologia non europea, non accademica, non ufficiale, ma una teologia latinoamericana, nata dalla storia, rivoluzionaria. Ma non si avvedono che proprio la categoria centrale di una teologia storica in cui il punto di partenza non sia la fede apostolica ma la concretezza esistenziale è una categoria importata dall’Europa. Di fatto si tratta di colonialismo teologico da parte di una teologia elaborata nei campus universitari cattolici europei. Se c’è colonialismo ci sono anche i colonialisti. E chi sono i colonialisti? Chenu, Congar, Rahner, Küng, Schillebeeckx, Lehmann, Kasper e via discorrendo, la lista sarebbe molto lunga.