Il linguaggio di Francesco, volutamente impreciso
Nel giro di pochi giorni papa Francesco ha fatto tre affermazioni dal contenuto molto problematico. Dapprima ha detto che Maria non è nata santa. Poi ha detto che il cristianesimo è rivoluzionario.Infine che è meglio essere atei piuttosto che andare in Chiesa e poi comportarsi male. Un linguaggio volutamente impreciso.
Nel giro di pochi giorni papa Francesco ha fatto tre affermazioni dal contenuto molto problematico. Dapprima ha detto che Maria non è nata santa ma lo è diventata perché santi non si nasce ma si diventa. Poi ha detto che il cristianesimo è rivoluzionario. Quindi ha affermato che è meglio essere atei piuttosto che andare in Chiesa e poi comportarsi male: “C’è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio, e lo fanno per essere ammirati dagli uomini. E quante volte vediamo lo scandalo di quelle persone che vanno in chiesa e stanno lì tutta la giornata o vanno tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente! Meglio non andare in chiesa: vivi così, come se fossi ateo. Ma se tu vai in chiesa, vivi come figlio, come fratello e dà una vera testimonianza, non una contro-testimonianza”.
La prima affermazione chiama in causa la corretta interpretazione del dogma dell’immacolata concezione. La seconda si oppone agli insegnamenti di moltissimi pontefici che hanno insegnato l’incompatibilità tra il concetto di rivoluzione e la fede cristiana. La terza è un intrico di gravi questioni teologiche e pastorali che richiedono di essere decrittate tramite un fine lavoro di esegesi che però nessun fedele è in grado di fare. Da qui il “conflitto delle interpretazioni” e lo smarrimento di tanti che si attendono invece dal papa poche e chiare parole. A far confusione, dicono, ci pensiamo già noi.
La terza affermazione sugli atei e gli incoerenti frequentatori della messa è tra l’altro in contraddizione con altri insegnamenti dello stesso Francesco. E’ nota la discussa affermazione della Evangelii gaudium ripresa nella famosa nota 351 di Amoris laetitia secondo cui “l’Eucarestia non è un premio per i perfetti ma un aiuto per i deboli”. Ammesso che sia così, non si capisce perché sia meglio essere atei che andare in chiesa pur essendo cristiani incoerenti. La coerenza qui viene richiesta in modo assoluto, mentre in nome di una superiore misericordia ai divorziati risposati non si chiede più la coerenza di vivere come fratello e sorella secondo le indicazioni di Familiaris consortio 84.
In ogni caso, anche se esaminata in se stessa, la frase presenta delle oscurità teologiche. L’ateismo, quando è colpevole, un tempo era considerato un peccato. Oggi, di fatto, non è più così, perché si pensa che Dio si riveli in tutti gli uomini e quindi anche negli atei. E’ per questo che si concedono le chiese alle cattedre dei non credenti e si permette loro di insegnare (in chiesa) che Dio non esiste. L’ateismo è la situazione dell’uomo che consapevolmente rifiuta Dio. Come è possibile che tale situazione di vita sia preferibile a chi va in chiesa pur non riuscendo poi ad essere cristiano fino in fondo nella vita pratica? In questo modo la coerenza diventa il criterio di valutazione al posto del contenuto di verità. Un ateo coerente sarebbe preferibile ad un cristiano incoerente. Può essere corretto criticare l’ipocrisia, anche se oggi (siamo seri …) quanti vanno in chiesa tutti i giorni “per essere ammirati dagli uomini”?, ma è problematico indicare la coerenza dell’ateo come alternativa.
La frequenza con cui papa Francesco pronuncia frasi problematiche come queste conferma un significativo cambiamento del linguaggio pontificio su cui da tempo si concentrano studiosi e osservatori. L’esempio massimo di questo nuovo codice comunicativo è stata Amoris laetitia. Si tratta di un linguaggio volutamente impreciso, allusivo, evocativo, sfumato, volatile ed ondeggiante. Un linguaggio che propone domande senza risposta, contrapposizioni dialettiche senza sintesi, polarità senza combinazione e spesso usa frasi del tipo “sì...ma” dove il “ma” introduce non solo attenuanti ma eccezioni. E’ un linguaggio per immagini dalla problematica interpretazione teologica più che per concetti: la dottrina come pietre scagliate, la tradizione che non è un museo, il peccato chiamato fragilità, il confessionale che non deve essere sala di tortura … E’ un linguaggio che non chiude ma apre, non precisa ma pone domande, non conferma ma fa nascere dubbi. Un linguaggio “in tensione”, storico, biografico, esistenziale, dinamico, che procede per contrapposizioni e contraddizioni e che inquieta.
La questione principale davanti a questi evidenti cambiamenti su cui, come ripeto, sono stati già scritti libri e libri, è se dietro questo mutamento di linguaggio ci sia anche un mutamento nella concezione del papato stesso. Il linguaggio non è mai solo linguaggio. Quando si usano parole nuove per indicare le cose di prima vuol dire che è nata una nuova dottrina che le vede in modo diverso. Specularmente, se si vuole far nascere un nuovo modo di pensare bisogna parlare in modo diverso. In questo senso il linguaggio di papa Francesco è l’estremizzazione coerente del passaggio iniziato col Vaticano II dalla dottrina alla pastorale, dalla natura alla storia, dalla metafisica all’ermeneutica. E ciò non poteva non finire per riguardare anche il ruolo del papa nella Chiesa.