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IL CASO ALFIE EVANS

Gli errori di un'etica della morte che si fa sentenza

La sentenza pronunciata sul caso Alfie Evans di lunedì non ha alcun appiglio giuridico. Anche perché nella legislazione inglese l'eutanasia è reato, ma si è studiato l'escamotage dell'accanimento terapeutico. E sul no al trasferimento altrove si bluffa, adducendo motivazioni per salvaguardarne l'incolumità. Un controsenso visto che vogliono porre fine alla sua vita. Ma è tutta la sentenza ad essere viziata da un'etica della morte che stravolge i principi del diritto. Ieri intanto è stato presentato il ricorso alla Corte Suprema che dovrà decidere definitivamente. 

Vita e bioetica 18_04_2018

Due sono gli snodi giuridici di rilievo interessati dalla sentenza della Corte d’Appello di lunedì scorso, sentenza che ha respinto la richiesta di trasferire Alfie in un altro ospedale. Il primo riguarda il “best interest” di Alfie, il secondo è intimamente legato al primo: il divieto di trasferimento del piccolo paziente in un’altra struttura.

Il primo aspetto è stato centrale nel botta e risposta tra i giudici e Paul Diamond, avvocato degli Evans, sebbene la questione di quale fosse il miglior interesse di Alfie fosse stata già risolta definitivamente nei precedenti gradi di giudizio. Per i giudici il best interest di Alfie è morire. Mantenere in vita un paziente disabile è accanimento terapeutico, è una crudeltà inaccettabile. In realtà si tratta né più né meno che di eutanasia: provocare la morte di una persona al fine di evitarle ogni dolore, anche quello psicologico di continuare un’esistenza fisicamente non perfetta. Alfie quindi deve morire perché non può migliorare. Ma anche se accettassimo questo principio assolutamente erroneo, nel caso di Alfie la conclusione non è così scontata.

Infatti una diagnosi precisa ancora non c’è stata, dunque non si sono ancora tentate tutte le possibili soluzioni terapeutiche e quindi nulla esclude che il paziente in qualche modo possa migliorare. Ma anche se non potesse migliorare – lo ripetiamo – non è lecito ucciderlo. Nemmeno se fosse paziente terminale – come arbitrariamente e proditoriamente ha affermato il giudice Eleanor King – perché non è moralmente lecito anticipare direttamente la morte di una persona, ossia compiere un assassinio, anche se poco le manca da vivere. In caso contrario dovremmo abrogare in tutto il mondo quegli articoli che sanzionano l’omicidio, dato che l’omicidio è la volontà di anticipare un evento – la morte – che è inevitabile per tutti. Dunque appare chiaro che i giudici sposano un’etica sul fine vita che privilegia la qualità della vita a discapito della dignità intrinseca di ogni essere umano al di là della sua maggior o minor perfettibilità fisica e al di là della sua capacità o incapacità di svolgere alcune funzioni.

Ma quali sono stati gli appigli giuridici indicati dai giudici per legittimare la soppressione di Alfie? Nessuno, se non riferimenti erronei alla Convenzione ONU per i diritti dei bambini. E qui sta un primo aspetto di carattere giuridico da sottolineare. Nel Regno Unito l’eutanasia è reato. Questo in punta di diritto. Sul fronte invece giurisprudenziale i magistrati non hanno quasi mai perseguito coloro i quali avevano accompagnato un proprio caro a morire all’estero, soprattutto nella clinica elvetica Dignitas. Nel 2014 Alison Saunders, direttrice del Public Prosecution, sostituendosi al Parlamento, pubblicò alcune linee guida attinenti al reato di suicidio assistito in cui si specificava che la perseguibilità penale doveva esercitarsi solo se c’era stata pressione psicologica sulla vittima. In ambito parlamentare e dopo il 2000 a più riprese si cercò, ma invano, di varare una legge che legittimasse il suicidio assistito. Il tentativo più recente e forse più efficace fu quello di Lord Falconer che presentò un disegno di legge nel 2013 e la cui discussione si protrasse sino al 2015. E tutti questi tentativi andati a vuoto riguardavano solo il suicidio assistito, fattispecie che attiene alla collaborazione di Tizio nell’aiutare Caio a darsi la morte, non le altre forme di eutanasia tra cui quella attiva che interessa Alfie. Dunque ad oggi non esiste una norma che legittimi il distacco del respiratore da Alfie provocandogli la morte (da noi invece questa norma esiste ed è contenuta nella legge sulle Dat). Ergo i giudici, comandando l’eutanasia, impongono di commettere un reato. Da qui l’escamotage giuridico di occultare il reato di eutanasia sotto le sembianze del rifiuto dell’accanimento terapeutico motivato dal miglior interesse di Alfie a non vivere più in quelle condizioni.

Passiamo al secondo corno del problema evidenziato in questa sentenza. Il principio del miglior interesse è aspetto cardine per impedire agli Evans di trasferire il figlio in un’altra struttura ospedaliera. Se è nel miglior interesse che Alfie rimanga a Liverpool perché lì potrà morire, allora di conseguenza nessuno potrà opporsi a questa decisione. Mutatis mutandis, se nell’interesse di un minore questi è stato dato in affido ad una famiglia perché i genitori non hanno dimostrato di provvedere alla sua cura in modo adeguato, l’ordine del giudice non potrà essere sindacato chiedendo che il minore venga trasferito dalla nuova famiglia al suo nucleo familiare di origine. Ma chi decide sul best interest? Non i genitori, bensì i giudici avendo ascoltato i medici. Nella loro prospettiva la morte è oggettivamente il miglior interesse per Alfie e il trasferimento in altra struttura è il miglior interesse solo dei genitori.

Assodato che quindi è nel miglior interesse del bambino rimanere nell’Halder Hey, ne consegue che i diritti dei genitori su Alfie in merito a questo specifico punto, compresi quelli indicati dall’art. 8 del Children’s Act, non possono essere legittimamente esercitati. Ecco spiegata la reiterata affermazione dell’avvocato Michael Mylonas, legale dell'ospedale, attinente alla limitatezza dei diritti dei genitori sui figli. Limitatezza  che – appuntiamo come inciso – invece non è predicabile in relazione al potere giudiziario dato che può condannare a morte un bambino. E’ per questo motivo che il giudice non ha sospeso la patria potestà a danno della giovane coppia, ma si è limitato ad emettere un’ordinanza che impedisse il solo trasferimento. Nella prospettiva del giudice non è dunque pertinente richiamare il principio legale dell’habeas corpus che tutela l’inviolabilità personale, perché l’ordinanza è volta a tutelare la dignità del piccolo paziente, tutela che per paradosso vieta il trasferimento perché pericoloso ed obbliga a rimanere all’Halder perché luogo sicuro dove verrà liberato dalla sofferenza di esistere in un corpo disabile. Secondo i giudici quindi non c’è illecita detenzione, bensì custodia in un ambiente protetto che allontana Alfie dal pericolo di evitargli la soppressione.

In sintesi, accettato il principio della qualità della vita, la morte è la miglior soluzione per Alfie e dunque è legittimo il divieto di trasferire Alfie in strutture dove potrebbero salvarlo. L’etica della morte si è fatta sentenza.