Gli atleti alle Olimpiadi 2018: "Chi crede è più forte"
Che la fede non sia un fardello, ma una relazione d’amore con Dio. Che chi crede ed è disposto a seguire la Sua volontà, sapendo che reca più felicità della propria, sia più libero, quindi più forte di fronte alle sfide, lo hanno testimoniato alcuni campioni delle Olimpiadi Invernali 2018 di PyeongChang che si sono concluse ieri.
Dopo aver volteggiato danzando sui pattini il giorno di san Valentino, Alexa e Chris Knierim, marito e moglie, hanno raccontato come sono arrivati alle Olimpiadi e come hanno contribuito al bronzo americano della gara di pattinaggio a squadre. A differenza di molti atleti l’accento non è stato messo sulla propria energia o determinazione, pur necessari ad ogni atleta di questi livelli ma su qualcosa d’altro, di più sicuro. Che, a detta loro, li rende liberi. Innanzitutto Alexa sa che se è arrivata a Pyeongchang è perché i suoi genitori e fratelli si sono "sacrificati" ipotecando “la casa per pagare le sue lezioni di pattinaggio”. Ma sopratutto si stupisce del miracolo di aver gareggiato dopo che all’inizio del 2016 una grave malattia allo stomaco l'ha colpita: "Il dolore era così grande che non potevo dormire…alcune notti piangevo dal dolore, non riuscivo ad addormentarmi, non potevo ingerire nulla, né acqua né cibo, ero malnutrita, senza sonno e debole”, ha spiegato. A volte il vomito durava 12 ore consecutive, ma Chris la sosteneva sia nella ricerca dei medici, sia nella preghiera.
Finché ad un certo punto “stavo così male e non sapevo davvero come sarebbero finite le cose, sia rispetto al pattinaggio sia alla mia vita, che alzai le mani dissi: “Sei Tu che detti la strada….io ti resto fedele”. Già visitata da molti dottori incapaci di diagnosticare la malattia, Alexa poco dopo trovò un medico che scoprì la causa della malattia. Altrimenti, “non penso che sarei sopravvissuta”. Alexa fu operata, dopodiché si ritrovò “a dover imparare di nuovo a pattinare”. Una sventura? Lei risponde così: “Ho sicuramente perso confidenza in me stessa, ma è cresciuta quella in Dio”. E ora non gareggia più pensando "o la vittoria o la morte": “La nostra priorità è l’umiltà e la gratitudine, che ci fanno andare in pista per godercela…facendo del mio meglio per far brillare la Sua luce”.
Un’altra storia che la stella americana dello snowboard non nasconde è quella della sua conversione quando ormai aveva già raggiunto l’apice della carriera. Kelly Clarck spiega come facendo consistere la propria felicità e persona nello sport si arrivi ad esserne schiavi.
Cresciuta in una piccola città a sud del Vermont, il padre la educa secondo l’american dream: “Se vuoi puoi diventare ciò che desideri”. A sette anni Kelly è già sulla tavola e a 14 decide: “Darò la vita per snow”, due anni dopo è un nome e tre anni dopo sarà alle Olimpiadi a vincere l’oro. Diciottenne è già al top carriera, non ha più nessun obiettivo da raggiungere. “Non sapevo più per cosa vivere e mi ammalai di depressione”, continua.
Un giorno, però, trascinandosi ad una gara, sente una ragazza piangere perché non si era qualificata, ma “un amico le sorride e le dice: “Non preoccuparti Dio ti ama ancora”. Non so dire perché ma qualcosa di quella conversazione mi colpì. Pensai, “ma se questo Dio mi amasse?”. La sera in albergo Kelly bussa alla porta della sua camera della ragazza: “Credo tu sia cristiana - le dice - e credo che tu mi debba parlare di Dio. Cominciò a dirmi che Gesù mi amava e che mi aveva creata per uno scopo. Era quello che avevo bisogno di sentire”. Per mesi Kelly legge la Bibbia, conosce i cristiani (“era incredibile non mi amavano per ciò che facevo ma per chi ero”) e prega. “Tutto ciò mi guariva…non dovevo più essere qualcuno, come pensavo da sempre, non dovevo fare qualcosa, ma solo lasciarmi amare”. E, continua, “è incredibile la libertà che vivo ora rispetto a prima dove la mia identità era legata allo snowboard”. Essere liberi dall’esito, perché “ho qualcosa che nemmeno il top della carriera può darti”, non significa “che non vincerai, ma che ce la metterai tutta senza paura di perdere”. Kelly che ha chiuso la sua carriera con un quarto posto alle Olimpiadi 2018 ora ha aperto una fondazione sportiva per insegnare questo sguardo nuovo sullo sport ai giovani atleti.
Nicole Hensley, 23 anni, è il portiere della squadra americana di hockey femminile. Ma quando iniziò a giocare, spiega, “mi arrabbiavo con una compagna se fallivo…mi arrabbiavo con gli arbitri”. Ma tutto questo “non aiuta la squadra non ti aiuta a vincere”. Per uscirne la giovane si rivolge a Cristo e questo “mi ha aiutata a capire che il risultato non è necessariamente la cosa più importante”. Una rinuncia ad avere il massimo? Il contrario. Nicole sa che questo è lo spirito che ti porta a dare il massimo e a rialzarti sempre di forte alle cadute: “Lasciare che Dio guidi il mio cammino…disposta ad ascoltare e fare del mio meglio in qualunque circostanza mi metta".
Perché la cosa che le ha insegnato più di tutto l’hockey è questa: “Fidarsi davvero di Dio…in alcune situazioni in cui mi chiedevo...Perché Dio mi sta facendo passare questo? Guardando indietro, vedo che aveva un piano”. Ciò, “mi ha insegnato che attraverso le difficoltà devi avere fede”, devi “essere disposto al disagio per crescere nella fede o come persona o giocatore”. La sua squadra giovedì scorso ha vinto l'oro. E Nicole avrà pronunciato uno dei versetti evangelici che twitta più spesso: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”.
D’accordo con lei la diciottenne sudcoreana Gim Sohui, che prima di gareggiare incrocia sempre le mani e prega: “Dio, ti prego ti affido le mie braccia e le mie gambe”. Kim è una promessa dello sci. Ad accorgersi del suo talento fu la nonna. “Tuttavia l'attrezzatura era troppo costosa ed era molto difficile pagare gli allenamenti”, ma “ogni volta che abbiamo pensato di rinunciare, Dio ha fatto arrivare borse di studio e altri aiuti finanziari”. Kim non ha raggiunto il podio, ma ha spiegato che “spero di costruire la mia carriera passo dopo passo, così un giorno potrò mettermi alla prova per diventare un membro del Comitato olimpico internazionale e girare il mondo per diffondere il Vangelo attraverso lo sport”.
Anche Simidele Adeagbo, skeletonista nigeriana, non ha vinto ma è tranquilla perché, ha chiarito che “devi affidarti e Lui fa”. Infatti quando Simidele, cittadina canadese, cominciò a sognare di gareggiare per la Nigeria e “avevo bisogno un allenatore, lo trovai”, ogni cosa che le serviva “arrivava con l’aiuto di qualcuno”. Quello che verrà poi? “Non lo conosco ma so che Dio mi guiderà sempre”. Per lo stesso motivo, di fronte alla sconfitta, la 18enne Maame Biney, pattinatrice di short track statunitense, figlia di un ganese giunto in America senza nulla, sorride per essere arrivata alle Olimpiadi: “Ringrazio Dio. Sono sicura che non sarebbe successo senza l’aiuto di Dio”.
E a spiegare perché un cristiano possa essere lieto anche dopo aver combattuto senza raggiungere la vittoria è invece chi l’oro lo ha ottenuto. Il campione di sci acrobatico David Wise. Ventisettenne americano sposato con due figli: “Amo quel che faccio e amo le persone che Dio mi ha donato nella vita. Alla fine della giornata, resto quello che sono, sia che sia salito al vertice del podio sia che non”. Il suo approccio allo sport e alla vita in generale è infatti questo: “Tendo a dare i massimo”, ma confido che Dio sappia quello che fa con la mia vita…quando guardo indietro è chiaro che Dio si è preso cura di me”. Aver donato la vita al Signore, volendo fare la Sua volontà, porta David a vivere in pace: “Il fatto che Dio abbia il controllo della mia vita e della mia famiglia mi libera dalle pressioni che ricevo. E rende più facile uscire là fuori e godermi la gara”.