Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL CARDINALE EIJK ALLA GIORNATA DELLA BUSSOLA

Eutanasia, Olanda all'atto finale: i sani verranno uccisi

"In questi anni si sta rompendo forse l’ultima barriera, pensando a una nuova legge che permetta l’assistenza al suicidio a gente che è di per sé sana. Con questo siamo arrivati forse giù ai piedi del monte?". Le drammatiche parole del cardinale arcivescovo di Utrecht, Willem Eijk, alla Giornata della Nuova BQ, sulla terribile escalation di come l'eutanasia si è imposta in Olanda. "Le esperienze olandesi devono metterci in guardia. I criteri per compiere l’eutanasia o il suicidio assistito sono sempre più estesi e mostrano storicamente e culturalmente il rischio di avanzare verso il baratro del piano inclinato".

Documenti 22_10_2018

Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Utrecht, Willem Jacobus Eijk, ha pronunciato ieri mattina in occasione della Giornata della Nuova Bussola Quotidiana che si è svolta a Milano al Centro Asteria. I video degli interventi con tutti gli ospiti sono disponibili sulla nostra pagina Facebook e presto sul sito del giornale. 

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L’Olanda è spesso vista come il paese modello nel campo dell’eutanasia e del suicidio medicalmente assistito, ma non è il Paese dove è cominciata la discussione sulla terminazione di vita a richiesta del paziente. Questa è accaduto in Inghilterra nel 1870 da parte di Samuel D. Williams, un insegnante e saggista a Birmingham, e Lionel A. Tollemache nel 1873. Dalla fine del diciannovesimo secolo fino alla Seconda guerra Mondiale inclusa, l’eutanasia sia a richiesta del paziente, che - nel periodo nazista pure senza richiesta del paziente - era frequentemente discussa in Germania. In quel periodo non c’era, però, un dibattito pubblico sull’eutanasia in Olanda. Tuttavia, questo sarebbe cambiato rapidamente e radicalmente, perché la cultura nella sua totalità è stata cambiata più rapidamente e radicalmente che in altri paesi occidentali negli anni sessanta del secolo scorso.

La miccia nel barile di polvere
La miccia nel barile di polvere da sparo per lo sviluppo della discussione olandese sull’eutanasia era un libretto, pubblicato dal professore di psichiatria dell’Università di Leida, Jan Hendrik van den Berg sotto il titolo provocatorio Medische macht en medische ethiek, che significa ‘Potere medico e etica medica’. In questo ha descritto una serie di casi medici estremi, il che capita spesso in discussioni del genere per mettere le emozioni sotto pressione con lo scopo di evitare una discussione razionale oggettiva sul valore della vita. I casi concernevano gente di età diverse che, mantenuta in vita per anni mediante trattamenti medici e operazioni chirurgiche, soffriva considerevolmente. Van den Berg argomentava che in questi casi i tentativi a mantenerli in vita non avevano senso e sarebbero dovuti essere omessi. Si avrebbe dovuto lasciarli morire semplicemente. È interessante che Van den Berg mostrò che - a parte i cambiamenti culturali rapidi e radicali nella società – una delle cause più importanti della discussione sull’eutanasia era il problema del trattamento eccesivo. Questo fenomeno era da una parte una conseguenza della mancanza di esperienza nell’applicare i nuovi trattamenti e le nuove tecniche che in quel periodo apparivano con un ritmo finora sconosciuto sul mercato. D’altra parte era anche un’espressione del desiderio generale di disporre della vita umana, un desiderio anche riconoscibile nella volontà di terminare la vita di malati con o senza richiesta. I medici dovevano imparare ancora come maneggiare il loro nuovo potere medico. Prolungando la vita di pazienti mediante l’applicazione di trattamenti medici e tecniche chirurgiche fino all’ultimo momento, non raramente inducevano i pazienti alla richiesta di terminare la loro vita o i parenti a richiedere la terminazione di vita del paziente.

Van den Berg argomentava che si doveva permettere al medico per legge di terminare la vita di malati in detti casi. Lui non pensava a eutanasia volontaria e suicidio medicalmente assistito, ma alla terminazione di vita senza richiesta in quelle situazioni in cui i pazienti coinvolti non erano in grado di esprimere la loro volontà. Spezzava una lancia in favore di questo nei casi di bambini che diventarono vittime alla fine degli anni cinquanta e all’inizio degli anni sessanta di thalidomide (anche conosciuto come immunoprin, contergan o softenon), un medicamento preso come soporifico delle loro madri durante la gravidanza, che causava delle malformazioni severe delle braccia e delle gambe durante lo sviluppo prima della nascita e altre aberrazioni.

Il libretto di Van den Berg metteva miccia nel barile di polvere: questo, pur concernendo solo la questione della terminazione di vita senza richiesta del coinvolto, era la causa immediata di un dibattito veemente e ardente sia su questo tema che l’eutanasia volontaria e il suicidio medicalmente assistito.

Le proposte di Van den Berg sarebbero state realizzate in gran parte nei decenni seguenti, pur non direttamente grazie alla resistenza forte contro la legalizzazione di questi atti. Ho cominciato a lavorare come medico nel reparto di uno degli ospedali dell’Università di Amsterdam nel 1978, dove avevo fatto i miei studi di medicina. Penso che in quel periodo circa la metà dello staff clinico, particolarmente la parte più giovane, fosse in favore dell’eutanasia volontaria e una piccola parte anche della terminazione di vita di pazienti senza la loro richiesta. Alcuni di loro anche compivano questi atti. I miei colleghi e gli infermieri del reparto di medicina interna dove lavoravo, si meravigliavano che io, pur essendo il medico più giovane, rifiutassi di compiere l’eutanasia o di cooperare a questa. Negli anni seguenti, però, il numero di casi di eutanasia sarebbe cresciuto esponenzialmente, cosicché negli ultimi decenni una grande maggioranza di popolazione si è mostrata a favore. Nel 2005 appariva che solo il 15% di tutti i medici in Olanda rifiuta di compiere l’eutanasia volontaria e di suicidio medicalmente assistito sempre e ovunque.

Eutanasia e suicidio medicalmente assistito
Negli anni settanta cominciò un dibattito pubblico sulla concessione dell’eutanasia, sempre senza aggiunte definita come volontaria, cioè a richiesta del paziente, e del suicidio medicalmente assistito. È importante notare che i criteri per l’applicazione dell’eutanasia e del suicidio medicalmente assistito si estendevano sempre più. Gli sviluppi olandesi mostrano che, permettendo delle possibilità limitate per l’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito per legge o nella prassi, ci si mette sul piano inclinato, in inglese il ‘slippery slope’, cioè il rischio che queste possibilità si estenderanno sempre. Impadronendosi, anche se per un minimo della vita e della morte, anche se solo a richiesta del coinvolto, si rischia di mettersi sulla strada verso una cultura di morte contro la quale ci ha messo in guardia nella Sua Enciclica Evangelium vitae (nr 12) Giovanni Paolo II.

Negli anni novanta le possibilità erano estese ad alcune malattie psichiatriche, quindi non somatiche. Un caso famoso riguardava quello di uno psichiatra, Chabot, che aveva dato una dose letale di medicamenti a una donna depressa di cinquanta anni, mediante la quale aveva messo fine alla sua vita, perché questa rifiutava di subire il trattamento psichiatrico usuale, ma desiderava morire.

La legge sull’eutanasia
Nel 1993 dopo lunghe discussioni, una regolazione provvisoria fu accettata sia dal Parlamento, che dal Senato. Solo nel 2002 la Legge sul controllo dell’interruzione della vita su richiesta e dell’assistenza al suicidio, chiamata di solito la Legge sull’eutanasia, pur non menzionando questo termine, entrò in vigore il 1° Aprile 2002. La legge non implica una legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito. Questi atti rimangono proibiti, ma non sono punibili, se eseguiti da un medico che ha osservato i criteri di accuratezza, elencati dell’articolo 2 della Legge sull’eutanasia. Una di queste richieste è che il medico sia convinto che la sofferenza del paziente sia senza prospettive e insopportabile (art.2,1,b). ‘Senza prospettiva’ implica che non ci sia più possibilità di curare la malattia del paziente, di migliorare la sua condizione, di eliminare o rendere sopportabile la sua sofferenza. Questo è un criterio medico, piuttosto oggettivo. Che la sofferenza sia ‘insopportabile’ è qualcosa che soprattutto il paziente deve indicare ed è perciò un criterio piuttosto soggettivo. Il medico deve essere arrivato insieme con il paziente alla convinzione che nella situazione in cui questo si trova non c’è un’alternativa ragionevole (art. 2,1,d). Inoltre, il medico deve aver consultato almeno un altro medico indipendente che ha visitato il paziente. Un’altra richiesta importante è che il medico, dopo aver compiuto eutanasia o aver assistito a un suicidio, notifica questo a una delle cinque Commissioni Regionali di Verifica di Eutanasia. Quando la Commissione, dopo aver verificato il caso, conclude che il medico ha osservato tutte le richieste di accuratezza e non sarà perseguito.

Il caso in cui un medico, nel compiere eutanasia o assistere in suicidio, abbia osservato le richieste di accuratezza, è considerato una causa di forza maggiore, per la quale il medico in questione non sarà punito (Codice di Diritto Penale, art. 40). La forza maggiore implica qui una situazione di emergenza, cioè un conflitto di doveri: da una parte il medico ha il compito di osservare la protezione legale della vita come richiesta dal Codice del Diritto Penale; d’altra parte lui ha il compito di lenire la sofferenza del paziente. Il medico si trova davanti a un conflitto di questi due doveri quando i mezzi usuali per allenire la sofferenza sono esauriti e lui potrebbe togliere perciò la sofferenza, soltanto terminando la vita del paziente. Quando si può constatare che qualcuno ha agito in una situazione di emergenza, assecondando un presunto interesse più alto di giustizia e non contravvenendo materialmente alla legge, pur avendolo fatto formalmente, un appello alla difesa di emergenza è considerato un motivo giustificabile per l’atto.

Che cosa dire di questo supposto conflitto di doveri? In primo luogo, la vita umana ha un valore intrinseco (essenziale) e in secondo luogo, il medico non ha il dovere di togliere tutta la sofferenza.

Prima di tutto, il togliere la sofferenza, sopprimendo la vita, non di fatti il togliere la sofferenza, ma l’eliminare l’essere umano che soffre. Tuttavia, un dovere di fare l’ultimo non esiste e non può esistere. La domanda fondamentale è se l’essere umano abbia il diritto di disporre della vita e della morte. L’uomo ha ovviamente un certo diritto di disporre del suo corpo, ad esempio nel quadro di interventi terapeutici, ma non il diritto di disporre della vita e morte proprie o di qualcun altro.

E perché? Il valore della vita fisica dell’uomo è legato al valore del corpo umano. Nel porre termine alla vita, si termina la vita fisica (non quella dell’anima, però, che è immortale). Nell’attuale cultura del mondo occidentale si considera il corpo spesso come un oggetto di cui potremmo disporre liberamente. Spesso inconsapevolmente, si identifica la persona umana soltanto con la coscienza psicologica, che mediante ragione fa delle scelte autonome, il risultato di processi biochimici e neurofisiologici complicati nella corteccia cerebrale e i nuclei superiori nel cervello - le funzioni cerebrali superiori. In questo quadro il corpo, in gran parte comune con quello degli animali, non specifico per l’uomo come tale, è visto come una dimensione estrinseca, esteriore della persona umana, che perciò non partecipa nel valore intrinseco di questa. La persona, ridotta alla coscienza, può perciò disporre liberamente del corpo umano come un puro mezzo per qualsiasi fine e ha il valore che essa gli attribuisce. L’individuo, una volta convinto che la vita fisica ha perso il suo valore per una malattia o per altre cause, potrebbe chiedere di porre attivamente termine alla sua vita.

Tuttavia, il corpo non è un oggetto o una cosa, ma una dimensione essenziale della persona umana. L’uomo è “corpore et anima unus” cioè “unità di anima e di corpo” secondo il Concilio Vaticano II. Lui è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, sia per quanto riguarda il suo corpo sia per quanto riguarda la sua dimensione spirituale. Dio e tutti coloro che sono stati creati a sua immagine sono sempre un fine in sé, cioè un valore essenziale o intrinseco, e mai un puro mezzo per un fine. Questo è valido anche per il corpo (cfr. Evangelium vitae nn. 53-55). Terminando la vita fisica per ovviare alla sofferenza, si sacrifica la vita umana per porre termine alla sofferenza. Questo implica che il corpo e, con esso, la persona umana, vengono degradati a un puro mezzo per realizzare un fine. La conseguenza è che terminare la vita con o senza richiesta della persona coinvolta è sempre e ovunque un atto moralmente cattivo e cade sotto il quinto comandamento.

Una volta minato il rispetto per il valore intrinseco della vita umana, pur con un minimo, la gente si abitua all’idea che la vita può essere terminata per mettere fine alla sofferenza. La prima inchiesta della prassi di eutanasia nei Paesi Bassi, fatta intervistando medici e analizzando le statistiche della morte, fu compiuta nel 1990. Il numero totale dei casi di eutanasia e suicidio medicalmente assistito, registrato in questo modo, era 2.700, l'1.9% di tutti i casi di morte. Nel 2010 il numero totale era aumentato fino a 4,050, il 2.8% di tutti casi di morte; 3.050 di questi concernevano eutanasia, 200 casi di suicidio medicalmente assistito.

Nei primi nove mesi di quest’anno, il numero delle notificazioni di eutanasia sembra essere diminuito abbastanza all’improvviso, cioè il 9% in meno che nello stesso periodo dell’anno scorso. Le cause sono sconosciute, ma si indicano due spiegazioni possibili:

1. A causa dell’epidemia d’influenza specialmente nei primi tre mesi dell’anno corrente molti anziani con una salute debole o altre malattie sono morti, fra cui anche un numero che avrebbe richiesto eutanasia, è scomparso prima di aver avuto la possibilità o la necessità di richiederla.

2. Un Pubblico Ministero sta facendo una indagine preliminare penale in cinque casi di eutanasia che le Commissioni Regionali di Verifica dell’Eutanasia hanno giudicato non accurati. Ci sono segnali rispetto ai quali alcuni medici arretrano di fronte al compiere eutanasia, temendo di essere implicati loro stessi in una indagine penale.

Il presidente delle Commissioni per la Verifica dell’Eutanasia, Jacob Kohnstamm, pensa, però, che si tratti di una diminuzione incidentale, e aspetta l’anno prossimo di nuovo un aumento del numero dei casi di eutanasia.

Un membro del parlamento di un partito liberale progressista, che ha argomentato molto in favore della legislazione sul cosiddetto matrimonio omosessuale nel 2001 e della Legge sull’eutanasia nel 2002, ha presentato una proposta di legge per l’assistenza al suicidio per gente che è dell’opinione che la loro vita sia compiuta. Essa pone nella sua proposta un limite di età: solo dopo aver raggiunto l’età di 75 anni si potrebbe avere la possibilità di chiedere assistenza in suicidio. Il rischio ovvio di questo limite d’età è di suggerire che la vita umana perde a ogni modo il suo valore quando abbiamo 75 anni.

La cessazione di vita di neonati handicappati
Nel 2004 uno scandalo è sorto per un accordo fra il reparto di neonatologia dell’ospedale dell’Universita di Groninga e il magistrato su un protocollo, il famoso protocollo di Groninga, che implicava una serie di richieste di accuratezza per la soppressione della vita di neonati handicappati (un neonato è un bambino che ha meno di un anno). I neonatologi, avendo rispettato dette richieste nella terminazione della vita di neonati handicappati, non sarebbero stati perseguitati.

Il Protocollo di Groninga riguardava la soppressione della vita di neonati che non soffrono attualmente, ma hanno una prognosi sfavorevole, in questo senso che soffriranno senza prospettiva e insopportabilmente nel futuro secondo i genitori e i neonatologi, ma non hanno un bisogno attuale di un trattamento intensivo (nel caso in cui avessero bisogno di un trattamento intensivo, si potrebbe farli morire, astenendosi da un trattamento intensivo). I 22 casi notificati al magistrato riguardavano la soppressione di vita per una spina bifida non complicata. Ma vi sono tanti, nati con una spina bifida, che conducono una vita di una qualità molto accettabile.

Le discussioni sul Protocollo di Groninga hanno avuto come risultato una regolazione nazionale concernente la terminazione di vita di neonati handicappati. Questa regolazione include anche aborti provocati ‘tardi’, cioè dalla 24^ settimana della gravidanza. In questa regolazione la soppressione di vita senza richiesta rimane proibita secondo l’articolo 293 del Codice del Diritto Penale. Tuttavia, un medico, dopo aver terminato la vita di un neonato (o aver procurato un aborto tardi), può appellarsi alla causa di forza maggiore.

Che cosa apprendere dalle esperienze olandesi?
Che cosa le esperienze olandesi di eutanasia, suicidio assistito e della terminazione di vita senza richiesta possono insegnare ai politici, a coloro che determinano la politica nella salute e a coloro che lavorano nella salute? Vorrei osservare due punti.

In primo luogo, come abbiamo segnalato già sopra, le esperienze olandesi devono metterli in guardia contro ciò che è spesso chiamato il piano inclinato. Le esperienze olandesi devono metterci in guardia. I criteri per compiere l’eutanasia o assistere al suicidio, sono sempre più estesi e mostrano storicamente e culturalmente il rischio di avanzare verso il baratro del piano inclinato. Per questo si rischia di scivolare giù velocemente alla base del monte.

Alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, si discuteva dell’accettabilità di eutanasia del suicidio assistito solo nella fase terminale di una malattia somatica, più tardi anche l’accettabilità di questi atti fuori della fase terminale. Negli anni Novanta si cominciavano ad accettare l'eutanasia e il suicidio assistito pure per malattie psichiatriche e per demenza. Nel 2004 si è rotta una barriera, cercando delle possibilità legali anche per la terminazione di vita di neonati, quindi esseri umani che non possono esprimere la loro volontà.

E in questi anni si sta rompendo forse l’ultima barriera, pensando a una nuova legge che permetta l’assistenza al suicidio a gente che è di per sé sana. Con questo siamo arrivati forse giù ai piedi del monte?

I numeri annuali rapidamente crescenti di casi di eutanasia e suicidio assistito suggeriscono che la terminazione della vita sia diventata nel frattempo una cosa normale per la grande maggioranza e che il rispetto di molta gente per la vita umana sia minato considerevolmente.

Una volta che si permette la terminazione di vita e quindi la violazione di un valore intrinseco per una certa sorta di sofferenza, si sarà confrontato dopo sempre con la domanda se questa non sia lecita anche per una sorta di sofferenza che è un po’ minore. Facendosi padrone della vita umana anche per un minimo, ci si farà radicalmente padrone di essa nel giro di alcuni decenni.

Il secondo punto concerne la necessita di sviluppare delle cure palliative adeguate per quelli che soffrono di malattie incurabili. Queste cure non hanno lo scopo di guarire la malattia. Un motto per le cure palliative è: “le cure palliative non aggiungono dei giorni alla vita, ma vita ai giorni.”

Per realizzare questo è necessario dare delle cure dirette alla persona intera: sul piano medico, psicologico, sociale e spirituale (pastorale). Questo richiede una collaborazione interdisciplinare in un reparto o una casa, in cui sia i pazienti che i medici, gli infermieri, i familiari e dei volontari formano insieme una comunità, per offrire un luogo in cui il paziente si trova a casa. Si vede spesso che i pazienti, una volta ammessi in un reparto o istituto per le cure palliative, si riprendono e hanno spesso meno bisogno di medicamenti per lenire il dolore o altri sintomi. Questa è la via per assisterli nel (ri)scoprire la dignità intrinseca della loro vita e per metterli in grado di continuare la loro vita sotto le circostanze date. Gesù dice del Vangelo secondo Matteo (25,40) a coloro che hanno fra l’altro visitato il prossimo:

“In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli (fra l’altro il visitare i malati e gli incarcerati), l’avete fatto a me.”

Dall’inizio i cristiani hanno visto questo appello come un incoraggiamento a prendersi cura di coloro che soffrono, soprattutto di malattie. Invece di offrire eutanasia o suicidio assistito o terminare la vita senza richiesta della persona coinvolta, dobbiamo offrire loro delle cure palliative amorose e affettuose.

Il termine ‘palliativo’, in latino ‘palliativum’, deriva dal sostantivo ‘pallium’, che significa ‘mantello’, o dal verbo ‘palliare’, cioè ‘coprire’. Un palliativo è una medicina che non guarisce la malattia, ma ‘copre con un mantello’ per così dire i sintomi o le sofferenze che ne sono le conseguenze. Il termine palliativo deriva forse da una delle leggende sulla vita di San Martino: questo, ancora militare dell’esercito romano, passando la porta della città di Amiens in una notte invernale gelida, ha dato la metà del suo mantello a un povero nudo. Durante la notte gli è apparso Gesù, vestito con la parte del mantello dato al povero. E Gesù lo ringraziò di aver vestito lui stesso, Cristo. Il riferimento al capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo è palese. San Martino, dando la metà del suo mantello al povero, non ha risolto strutturalmente la sua povertà - il problema sottostante -, ma dava al povero un po’ di caldo e, coprendo il suo corpo nudo con la metà del mantello - ‘pallium’ - gli faceva (ri)scoprire la sua dignità umana. Questo è lo scopo principale delle cure palliative: l’aiutare i malati, la cui malattia sottostante non è più guaribile e che pensano perciò che la loro vita abbia perso il suo valore intrinseco, a (ri)scoprire questo.

E per quanto riguarda coloro che non sono malati, ma soffrono di altre cose, come la solitudine, la perdita di persone care, amici o una mobilità limitata sono costretti a rimanere a casa, dovremmo andare a trovarle. La solitudine è un problema reale, molto diffuso nella nostra società iper-individualista. Dovremmo offrire loro rapporti sinceri e cordiali per liberarle dalla solitudine, in cui sono incarcerati. Così potranno scoprire o riscoprire che la loro vita non è ‘compiuta’ (fra virgolette), ma ha senso ancora e ha ancora la sua piena dignità umana intrinseca.