Danimarca, legge anti-velo e proteste delle anime belle
In Danimarca hanno approvato una legge anti-velo che non colpisce solo burqa e niqab, ma ogni forma di mascheramento (anche un passamontagna) come in Italia. Manifestazioni dei progressisti, con donne che indossano il velo per protesta. Ma sanno cosa è il velo islamico?
L’1 agosto in Danimarca è entrata in vigore una legge approvata a maggio che dice: «chiunque indossi in pubblico un indumento che ne nasconde la faccia sarà punito con una multa». Le multe previste vanno da 1.000 a 10mila corone (in caso di violazioni ripetute): 1.000 corone equivalgono a circa 150 euro. La Danimarca si unisce, così, a molti altri paesi europei che hanno introdotto misure simili, tra cui Belgio, Austria, Francia e Germania.
Approvata dal Parlamento danese con 75 voti a favore e 30 contrari, grazie ai «sì» dei Liberali e all'appoggio dei Conservatori e del Partito popolare, che sostengono dall'esterno l'esecutivo di minoranza, la norma è già stata definita «anti-burqa». Ma il governo, guidato dal premier Lars Løkke Rasmussen, ha replicato che non si tratta di una legge contro una certa religione. Sicurezza e antiterrorismo, infatti, costituiscono lo sfondo di una norma che, in sostanza, ha vietato l'uso del niqab - il velo islamico che copre (lasciando solo una minuscola fessura per gli occhi) interamente il corpo della donna -, ma anche i passamontagna.
In Danimarca c'è una cospicua percentuale di islamici, che sfugge alle statistiche, e che negli ultimi anni ha rifiutato la convivenza con i danesi. Interi quartieri sono ormai governati dalla sharia, ci sono zone a cui è vietato l'accesso alle donne e sono sempre di più quelle che, al contempo, girano in niqab. Le legge arriva pertanto, allo stesso modo dei paesi europei in cui si riscontrano le medesime problematiche, come argine ad un fenomeno da tenere sotto controllo.
E il clima è tale che all'indomani dell'entrata in vigore della norma, Copenhagen s'è fatta subito teatro di proteste. Tra i manifestanti le donne musulmane che hanno ostentatamente indossato il niqab e poi tante donne danesi che si sono "velate" per solidarietà. Cosa che il New York Times ha tenuto a sottolineare, «al centro di una protesta per il diritto delle donne di coprirsi c’erano donne che non lo fanno. Gambe scoperte, spalle in vista e lunghi capelli biondi; in mezzo a veli e niqab».
La manifestazione – organizzata tra gli altri anche dall’associazione Kvinder i Dialog – è iniziata nel quartiere residenziale di Mjolnerparken, abitato soprattutto da immigrati che esponenti del governo danese e giornalisti usano definire "ghetto" e "società parallela". La manifestazione è terminata con una catena umana intorno a una delle principali stazioni di polizia di Copenhagen, a mo' di monito.
Il ministro della Giustizia Soren Pape Poulsen dal canto suo, continua a difendere la legge: «Si parla di che tipo di società dovremmo avere, date le nostre radici e la nostra cultura: non copriamo le nostre facce e i nostri occhi, dobbiamo essere in grado di vedere le espressioni facciali degli altri. In Danimarca è un valore». Cosa che la Francia ha provato a fare approvando la medesima legge già nel 2011.
Ma ai fautori della protesta danese la cosa proprio non va giù. Gauri van Gulik, direttrice di Amnesty International per l’Europa, ha detto che il divieto viola i diritti alla libertà di espressione e di religione e che «tutte le donne dovrebbero essere libere di vestirsi come vogliono e di indossare abiti che esprimano la loro identità o le loro convinzioni (…) Se l’intenzione di questa legge era quella di proteggere i diritti delle donne, fallisce in maniera clamorosa. Invece, la legge criminalizza le donne per le loro scelte di abbigliamento e così facendo tradisce quelle libertà che la Danimarca pretende di sostenere».
Chi parla, però, evidentemente conosce poco di islam e velo. Lo hijab, il niqab e qualsivoglia altro modello di copertura islamica, storicamente, non ha mai rappresentato un dogma nella religione di Allah o un simbolo religioso. Nel 2004 Khaled Fouad Allam, professore musulmano di islamologia discusse approfonditamente il tema e sottolineò che il bisogno di ricamare sul velo una teoria del diritto non era proprio contemplato, nell'islam classico, dai giuristi.
Lo ‘hijab', infatti, compare solo nel XIV secolo. Prima, nessuna traccia della parola nel Corano. Il giurista Ibn Taymiyya fu il primo a utilizzarla. E lo fece prendendo spunto da una interpretazione del versetto 31 della sura 24 del Corano. Nell’estrapolare un'affermazione, dal chiaro contenuto generico, le attribuì valore di norma. C'è stato un tempo in cui, infatti, per le stesse strade lungo le quali oggi è difficile trovare una donna senza chador o niqab, la si poteva vedere vestita esattamente "all'occidentale". Erano gli anni '80, poi arrivarono i talebani. Non certo per allungare la stoffa della gonna, ma per coprirle completamente.
Negli anni Ottanta, la rivoluzione islamica iraniana, nella furia della reislamizzazione sigillò la donna nel velo. L'ambasciata iraniana per prima distribuì l'hijab nelle moschee. E’ difficile da credere, ma ai primi anni Novanta la maggior parte delle donne nelle strade dell’Algeria erano vestite all’occidentale. Famosa e spettacolare fu la provocazione islamista del 1994, proprio ad Algeri, quando la capitale si svegliò letteralmente tappezzata di manifesti che 'annunciavano' l’esecuzione delle donne senza velo. Da quel momento non se lo tolsero più.
Khomeini, alla vigilia degli anni '80, iniziò con l'abrogare l’illuminato diritto di famiglia promulgato dallo Scià, e in breve fece dello chador la "bandiera della rivoluzione". Perché in quel velo è incisa la forma sublime del rifiuto: il rifiuto dell'identità occidentale, dell'assimilarsi. "Le donne che hanno fatto la Rivoluzione erano e sono donne con la veste islamica, non donne eleganti e truccate come lei che se ne vanno in giro tutte scoperte trascinandosi dietro un codazzo di uomini. Le civette che si truccano ed escono per strada mostrando il collo, i capelli, le forme, non hanno combattuto lo Scià. Non hanno mai fatto nulla di buono quelle. Non sanno mai rendersi utili: né socialmente, né politicamente, né professionalmente. E questo perché, scoprendosi, distraggono gli uomini e li turbano. Poi distraggono e turbano anche le altre donne", dirà Khomeini a Teheran, nel settembre del 1979, ad una irriverente Oriana Fallaci che a capo scoperto lo stuzzicava.
Quando il paese insorse contro lo Scià si videro, infatti, le donne scendere in piazza a migliaia avvolte nel tradizionale velo, e lo fecero proprio in sfida alla forzata "occidentalizzazione", quando Khomeini non era ancora arrivato a cambiare il volto della Persia che fu. E le immagini di quella manifestazione assomigliano tanto alla Danimarca di oggi: essere occidentali, o diventarlo, è un retaggio culturale da lasciare al passato.
A metà degli anni Ottanta, così, tutto cambiò d’improvviso: la sharia, la legge in vigore nel VII secolo di Maometto, venne implementata in molti di questi paesi sotto la spinta reislamizzante; la donna in Medio Oriente venne messa in una gabbia portatile e in Europa cominciò a indossare il velo per reclamare la propria "identità". E da un po' di tempo la sottomissione islamica è diventata, infatti, anche chic. Ce l'hanno voluto ribadire dalla Danimarca.