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CASO RIPA DI MEANA

Corna glamour sulla bara: è la pastorale del diavolo

Il piumaggio di velluto con le corna sulla bara di Marina Ripa di Meana. Compiacimento estetico che cela la pastorale del diavolo. Un vuoto terribile di speranza cui la liturgia della Chiesa dovrebbe opporsi recuperando il concetto di morte eterna.

Ecclesia 14_01_2018

Nel dopo morte di Marina Ripa di Meana - “dopo morte” sostituisce i termini “funerali civili” o “esequie cristiane”, che non hanno avuto luogo -, al vedere le foto delle corna sulla bara ivi poste per volontà della defunta, ho provato una sensazione fortissima, frutto di contrasto tra due sensazioni contemporanee, proprio come capita nei libretti d’opera (ad es. «Di opposti affetti un vortice / già l’alma mia circonda»: Rossini, La donna del lago): un godimento estetico e un brivido di terrore generato dalla fede.

Il compiacimento estetico perché le due corna sulla bara mi sono sembrate belle ed eleganti, anche se trasgressive. Non erano ruvide, ma di velluto. Poi la bara era foderata di un drappo rosso e il contrasto del rosso con il nero, completato dal bordo oro, è canonico e classico come una cantata o una fuga di Bach. Infine le corna con una sorta di piumaggio sottostante animavano un po’ la bara quasi trasformandola da contenitore inerte a qualcosa di animato, a un animale misterioso e fantastico. Che genialata!

Già... l’animale misterioso e fantastico mi ha fatto emergere dalla memoria il quadro Il grande caprone di Francisco Goya († 1828), dove delle streghe in cerchio adorano un caprone eretto, le cui corna, al centro del quadro, sono ampie, ricurve e determinanti come quelle della bara e rimandano senza mezzi termini alle corna del demonio. E qui iniziava il “terrore della fede” percependo un rimando satanico - una presenza satanica? - su quella bara, una alleanza malvagia, una dannazione iniziata. Di più, c’era sulla bara come una sfida e una presa in giro al Dio cristiano della salvezza, che però, in chi ha un po’ di confidenza con le Scritture, evocava una terribile risposta di Dio: «Ride chi sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro» (Sal 2,4), perché a quanti hanno peccato «volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità» non resta che «una terribile attesa del giudizio» e, conciati così, «è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» (Eb 10,26-27.31). E allora il rosso del drappo, da piacevole contrasto cromatico, si trasformava nel segno di quella «vampa di fuoco che (dopo il giudizio) dovrà divorare i ribelli» (Eb 10,27). Come non rabbrividire?

Ma bisogna ragionare. Alla luce della fede, ma ragionare e distaccarsi dalle emozioni immediate. Per cui ecco alcune riflessioni, che danno per scontati i due precedenti interventi di B. Frigerio e di R. Puccetti. Qui ci si concentra non sul fine vita, ma sulla morte stessa e su come da Marina Ripa di Meana è stata gestita e spettacolarizzata l’uscita da questo mondo.

È urgente una precisazione di metodo: nonostante segni di equivoca tendenza della vita, della morte e del dopo morte di Marina Ripa di Meana, qui non voglio pronunciare un giudizio che compete solo a Dio, che conosce gli ultimi istanti, né intendo affermare che la de cuius è all’inferno o che abbia intrattenuto rapporti equivoci con il demonio; anzi, intendo pregare per lei e basta. Questo a livello strettamente personale.

Contemporaneamente però bisogna accettare che certe azioni esterne sono quelle che sono, a prescindere dall’intenzione di chi le compie. Soprattutto i simboli sono quelli che sono e parlano da soli e non sopportano, né per Marina Ripa di Meana né per altri, correzioni tipo: «Ma io in realtà non intendevo... ma io in realtà volevo dire che...». Per cui ciò che è successo va ben oltre il fatto personale e assume il valore di un modello di vita e di morte presente nella nostra società. Ed è a questo livello che ne scrivo. 

È stato un dopo morte all’insegna della soggettività trionfante, quasi ponendosi come un possibile modello. Alla morte dopo la “sedazione profonda” non sono seguite né esequie cristiane, né funerali civili. C’è stata sì la camera ardente con visite e dichiarazioni dei compagni di cordata, dopo di che la bara è stata portata direttamente al cimitero per la cremazione. È un dopo morte “fai da te come ti pare”, che cancella non solo le esequie cristiane, ma anche un funerale civile portatore di una tradizione sulla gestione ed elaborazione del lutto. Anche se, da un altro punto di vista, nel caso concreto è stato preferibile che sia successo così, evitando la sceneggiata di certi discorsi come ai funerali di Umberto Eco a Milano, quando Moni Ovadia impartì al defunto “una benedizione da non credente a non credente”!

È stato un dopo morte con un vuoto terribile di speranza per il silenzio di ogni riferimento a Gesù Cristo e alla vita eterna - coerente con l’immagine pubblica della defunta -, e per quell’unica certezza di “tornare alla terra” evocata nel video del testamento, citazione forse non avvertita di Gen 3,19, che, separata dalla restante storia salvifica, lascia l’uomo nella condanna e nella sconfitta. In realtà anche questo dopo morte è un modello di tanti funerali senza speranza perché la vita trascorre sempre di più senza Gesù Cristo.

Questo funerale - questi funerali - dovrebbe far prendere coscienza ai cristiani di quello che mancava e per contro della ricchezza che essi hanno a disposizione, come spiega il n. 1 delle Premesse del Rito delle Esequie: «Nelle esequie, la Chiesa prega che i suoi figli, incorporati per il Battesimo a Cristo morto e risorto, passino con lui dalla morte alla vita e, debitamente purificati nell’anima, vengano accolti con i Santi e gli eletti nel cielo, mentre il corpo aspetta la beata speranza della venuta di Cristo e la risurrezione dei morti». Quanta consolazione nella comunità che prega, nella speranza della risurrezione che non annulla il ritorno alla terra ma lo inserisce in una più luminosa prospettiva, in una vita che non è completamente spenta ma trasformata: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata /vita mutatur, non tollitur» (Prefazio I Defunti)! Per cui, caro cristiano del XXI secolo, «Impara almeno in questo la santa superbia, renditi conto che sei in una condizione migliore di loro / Disce in hac parte superbiam sanctam, scito te illis esse meliorem» (San Gerolamo, Lettera XXII a Eustochio, n. 16).

Resta il segno oggettivamente diabolico delle corna. Ho troppa coscienza dell’intelligente furbizia del diavolo per concludere che è un segno di disperazione, di dannazione, di sofferenza eterna così percepito dall’interessata e dagli altri. Il demonio sa bene che un messaggio del genere sarebbe rifiutato da quasi tutti e segnerebbe la sua sconfitta. Il messaggio diabolico è invece passato sotto due aspetti gradevoli: una certa eleganza estetica ricordata all’inizio e una sfida ironica del tipo: “Si può tranquillamente scherzarci sopra, tanto il diavolo non fa male, anzi, tanto al di là non c’è niente!”. Se così è, si può ridere su quello che insegna la Chiesa e ai segni della salvezza sostituire sulla bara un ricordo/simbolo di una allegra trasgressione, monito per chi vive: fate lo stesso!

E forse altri funerali seguiranno con altre analoghe trovate ben diffuse dai media. È la pastorale del demonio, al quale in bel modo una cosa sola interessa nascondere sino al momento in cui non sarà più possibile tornare indietro: che «la via dei peccatori è ben lastricata, ma al suo termine c’è un baratro finale» (Sir 21,10).

Come spesso capita, perdendo il cristiano si compromette anche l’umano e assistiamo sempre di più a una banalizzazione della morte, a cominciare dal tipo di fotografie che si collocano al cimitero.

Qui però forse c’è anche una sottile responsabilità della pastorale e della riforma liturgica. Infatti tutti gli aspetti belli e consolanti della morte cristiana e soprattutto del dopo morte non sono un di più che migliora una situazione neutra o già positiva, ma sono la liberazione da una tragedia. La quale tragedia va messa in evidenza a fianco della consolazione di esserne in Gesù Cristo liberati. Il Rito delle esequie precedente il Vaticano II (Rituale del 1952) evidenziava con efficacia i due poli con due famosi responsori ben in vista: «Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda ecc. / Liberami, Signore, dalla morte eterna, in quel giorno tremendo», che esprimeva la possibile tragedia della morte, e poi la consolazione dell’altro responsorio: «Subvenite, Sancti Dei, occurrite, Angeli Domini: Suscipientes animam eius: Offerentes eam in conspectu Altissimi. Suscipiat te Christus ecc. / Accorrete Santi di Dio e Angeli del Signore, accogliete la sua anima e portatela al cospetto dell’Altissimo. Ti accolga Cristo ecc.». Ora l’attuale riforma ha ripreso e valorizzato molto il secondo responsorio, ma non ha valorizzato altrettanto il primo. Eppure la “morte eterna” non è altro che la seconda morte, di cui parla Ap 2,11; 20,6.14; 21,8, e la terribile espressione “in die illa tremenda / in quel giorno tremendo” altro non è se non una rielaborazione di Sof 1,15: «Dies irae, dies illa / Giorno d’ira quel giorno». Strano che una riforma intenzionata a riscoprire la Bibbia e a por fine all’esilio della Parola, non si sia accorta che il responsorio era biblico!

Ritengo che l’attuale Rito delle Esequie sia pregevole e sono consapevole della difficoltà di ricuperare con evidenza il primo responsorio, la morte eterna, il giorno dell’ira. È però vero che senza mettere in evidenza la tragedia della morte e del dopo morte (da cui in Cristo siamo liberati), di fronte alle corna sulla bara si reagisce lievemente o non si reagisce del tutto.

Come conclusione viene bene la preghiera di Fatima un poco aggiornata: «Gesù mio, perdona i nostri peccati, preservaci dal fuoco dell’inferno... e dalle corna del diavolo!».