Chiese dismesse, il problema è la fede che non c'è
Il Pontificio Consiglio per la cultura emana le linee guida sulle chiese dismesse dopo il convegno del mese scorso. Tutto come previsto: diventeranno musei o "centri sociali". Ma è frutto di una precisa teologia di una Chiesa che si fa mondo. E trascina con sè una fede che si fa etica sociale. Se il compito della Chiesa fosse invece evangelizzare, come è, le chiese dismesse dovrebbero destare interrogativi angoscianti.
Cosa fare delle chiese “dismesse”? Il Pontificio Consiglio della Cultura, presieduto dal cardinale Ravasi, ha pubblicato delle Linee-guida per affrontare questo fenomeno. Calo della popolazione – dicono le Linee – invecchiamento dei centri storici, chiese non parrocchiali non più sostenute dalle realtà che le avevano costruite e mantenute, diminuzione del clero, sepecolarizzazione … un insieme di cause pone il problema delle chiese non più sede di uso liturgico. Come evitare che diventino discoteche o pizzerie? Questa è, in sintesi, la problematica.
Il Pontificio Consiglio prende atto di questa situazione, dandola per scontata e irreversibile, e quindi, dopo aver dichiarato che una chiesa non esaurisce la sua funzione solo come sede liturgica, ma ha anche altre valenze, propone un dialogo con la società civile per la destinazione appunto “sociale” delle chiese.
Tutte le questioni pratiche che la Chiesa deve affrontare, compresa questa delle chiese “dismesse”, dipendono da una visone teologica. Se compito della Chiesa è evangelizzare il mondo e rinnovarlo con la forza della morte e resurrezione di Cristo, la diminuzione dei “luoghi” in cui questo mistero cosmico e miracoloso avviene dovrebbe angosciare. E dovrebbe portare a chiedersi da dove nasca questa secolarizzazione che non fa più andare a Messa le persone. Perché il problema sta lì, e non nel calo demografico oppure nell’invecchiamento dei centri storici, cause concomitanti ma non certo fondamentali nella dismissione delle chiese. Se, invece, compito della Chiesa è considerare il mondo come altare, i poveri come sacramento, la solidarietà sociale come carità, l’ingiustizia sociale come causa del peccato e non il peccato come causa dell’ingiustizia … allora le chiese servono a poco o non servono addirittura e il fenomeno della secolarizzazione è da vedersi come positivo e frutto dello stesso cristianesimo. Sarebbe il cristianesimo stesso a pretendere che le chiese siano sostituite da strutture sociali o culturali.
Oggi il proselitismo è condannato, l’osservazione del precetto domenicale è considerata superata, si costituiscono celebrazioni domenicali senza Messa anche in città con un’ampia presenza di sacerdoti e si aspetta il sinodo sull’Amazzonia per poterlo fare in forma autorizzata e sistematica. Si capisce quindi che la preoccupazione non è cosa facciamo delle chiese dismesse, ma cosa facciamo delle chiese. Ci sono tante chiese dismesse, a parte motivi storici vari, perché non sappiamo più rispondere alla domanda a cosa servano le chiese non (ancora) dismesse.
Una volta accettata la secolarizzazione come un fenomeno irreversibile e positivo, addirittura frutto del cristianesimo, non si vede perché ci si dovrebbe preoccupare della scomparsa delle chiese, esito di una secolarizzazione coerentemente compiuta fino in fondo. Tale scomparsa è da vedersi come un bene, come una uscita verso il mondo, come simbolo di una Chiesa povera che si fa mondo, una Chiesa che non ha privilegi né presunzioni di superiorità e che non vuole sovrapporre al mondo la propria ideologia eucaristica, come se le sorti del mondo dipendessero dalla consacrazione del Pane e del Vino fatta da un inutile sacerdote, una Chiesa che riconosce finalmente che Dio si rivela nell’umanità e, quindi, che fondare un sindacato o una associazione contro la tratta delle donne è più importate che celebrare la Messa davanti a un pugno di persone, dato il calo demografico e l’invecchiamento dei centri storici. Vorrebbe dire non riconoscere che il mondo è adulto e capace di sé e che il mondo e non la Chiesa è il luogo dell’auto-comunicazione di Dio come dice la teologia che oggi va per la maggiore.
Ma almeno le chiese non diventerebbero pizzerie, dice qualcuno insieme con le Linee guida del Pontificio Consiglio della Cultura. Diventerebbero centri sociali, luoghi di cultura, teatri amatoriali, sedi dell’associazionismo. Ma in questo modo il percorso di una Chiesa che si fa mondo è ancora più evidente. La carità che si fa solidarietà, la pace di Cristo che diventa pacifismo, la liturgia che diventa rappresentazione teatrale, l’amore di Cristo per i Piccoli che diventa scuola di danza, la comunità ecclesiale che diventa assemblearismo, la fede che diventa religione civile, l’unica salvezza in Gesù Cristo che diventa riunione inter-religiosa. Si dice continuamente (sbagliando) che la fede cristiana non è un’etica e poi la si riduce ad etica sociale utilizzando gli spazi liturgici come luoghi di aggregazione sociale e culturale.
In una diocesi italiana un lascito ha conferito al vescovo la proprietà di una cappella in centro città ormai in disuso e abbandonata. Il vescovo non ha mai pensato nemmeno per un istante di farne un centro sociale, ha subito pensato di restituirla al culto e farne un centro di spiritualità per giovani. Il compito di ogni vescovo e di restituire ogni chiesa al culto e alla celebrazione eucaristica. Niente di meno può soddisfare, né niente di meno può essere programmato dal Pontificio Consiglio della Cultura.