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INTERVISTA

Booth: Brexit, più incognite che certezze

Una sorpresa causata da errori politici, la decisione del Regno Unito di uscire dall'Unione Europea diventa un salto nel buio. Ma ad uscirne peggio potrebbe essere la UE, che perde l'apporto di un paese che ha spinto per un'economia più libera. Parla l'economista britannico Philip Booth

Esteri 08_07_2017
Philip Booth

In un momento in cui in tutta Europa risorgono i nazionalismi e si levano moti di ribellione nei confronti dell’Unione europea, anche il sistema politico inglese, che sembrava avviato verso una trionfante uscita dall’Unione, sembra perdere colpi e avviarsi verso l’instabilità. E di Brexit e dintorni ci parla Philip Booth, docente di Finanza, etica e public policy alla St. Mary’s University di Twickenham, Londra. Esperto di dottrina sociale della Chiesa, fino allo scorso anno è stato anche direttore accademico e ricerche del prestigioso Institute of Economic Affairs, il think tank conservatore che lungo l’arco di un trentennio aveva preparato con cura e poi sostenuto le basi teoriche delle politiche riformiste di Margaret Thatcher. Ma gli anni ruggenti della ripresa britannica, accompagnata da un solido impianto culturale e da una ben precisa visione politica, sembrano lontani. Abbiamo incontrato  Booth alla Acton University, che si è appena conclusa a Grand Rapids, nel Michigan, dove ha tenuto alcune lezioni sui fondamenti della societá libera alla luce dell’antropologia cristiana. 

Professor Booth, cominciamo dall’inizio: perché Cameron ha scelto di indire il referendum sulla Brexit?
Senz’altro per risolvere molti dei problemi che erano nati all’interno del partito conservatore inglese, dato che si era creato un importante movimento a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ma non si aspettava di certo che il fronte pro-Brexit vincesse. Personalmente non ero contrario ma alla fine ho votato a favore del “remain” (a favore del rimanere nella UE, ndr), perché ero molto preoccupato dal modo in cui il dibattito sulla Brexit stava procedendo, soprattutto per le politiche restrittive sull’immigrazione, che non approvo. Temevo che a fronte dell’uscita dalla UE ci saremmo ritrovati con tutte le regole e i regolamenti e i problemi che vengono da Bruxelles, ma replicati dal Regno Unito, perché anche noi siamo molto bravi a creare i meccanismi che frenano l’innovazione e l’impresa. 

Perché era così preoccupato e contrario alle restrizioni all’immigrazione?
Perché, sempre nell’ambito di un quadro normativo, credo in senso lato nella libera circolazione delle persone e credo che nell’ambito dell’Unione europea il movimento delle persone abbia beneficiato molti, e funzionato bene, consentendo ad esempio di spostarsi da zone in cui ci sono meno opportunità lavorative verso altre che ne offrono di più. Inoltre, il mercato del lavoro britannico si è dimostrato estremamente efficace nell’ “assorbire” queste persone, che hanno arricchito culturalmente il Paese. 

Se lei teme l’aumento della regolamentazione e dei suoi effetti negativi sul Regno Unito, come pensa che i promotori della Brexit potessero e possano immaginare che l’uscita dalla UE, dopo quarant’anni di intrecci normativi complessi, sia semplice?
Sicuramente parliamo di un’area complessa. L’economia è governata da una regolamentazione che in larga parte è stata originata a Bruxelles e assorbita dal sistema giuridico britannico. Ma non dimentichiamo che molte delle politiche di Bruxelles hanno visto Londra protagonista: pensiamo alle politiche sul cambiamento climatico, alla regolamentazione del mercato assicurativo, ecc. Se in alcune aree quali il mercato del lavoro abbiamo opposto resistenza, in altre abbiamo spinto per una maggiore regolamentazione. Quindi auspico, ma non sono fiducioso del fatto che, una volta uscita dalla UE, il Regno Unito avrà automaticamente meno regolamentazione: potrebbe non succedere. 

Alla luce dei recenti risultati delle elezioni politiche (il primo ministro in carica, Theresa May, ne è uscita indebolita perché ha perso la maggioranza assoluta, ndr) che conseguenze ci potranno essere sulla Brexit?
È molto difficile a dirsi. La vera domanda è se riuscirà a ottenere un accordo che manterrà in essere alcuni dei benefici del Mercato unico, senza alcune delle cose che non vogliamo. Il governo è però chiaro nel volere lasciare l’Unione e nel voler negoziare accordi commerciali con il resto del mondo,  ampliando il campo del libero scambio. In fondo, l’unione doganale è una forma di barriera al libero scambio. E anche se la UE è attualmente il più importante mercato per le esportazioni dal Regno Unito, lo è in parte perché distorce il commercio verso l’esterno, soprattutto per ciò che riguarda il settore alimentare. Inoltre, per ragioni demografiche ed economiche, la quota dell’economia mondiale della UE è in rapido declino. 

Ma il Regno Unito starà meglio fuori dalla UE?
Credo che nessuno sappia se il Regno Unito starà meglio fuori dalla UE o dentro, dipenderà da differenze di lungo termine rispetto alla situazione che si è lasciato alla spalle, per ció che concerne la regolamentazione, la solvenza fiscale degli Stati membri nella quale avrebbe potuto essere coinvolto se fosse rimasto dentro, ecc.

E l’Unione europea starà meglio senza il Regno Unito?
Credo proprio di no ed è per questo che ho votato “remain”. Ero fermamente convinto che la UE non sarebbe stata meglio senza il Regno Unito che, soprattutto per alcuni paesi del nord Europa, è stato l’ispiratore intellettuale e politico di un’Europa più aperta, più favorevole alla creazione di posti di lavoro e alla libertà d’impresa, rispetto a sentimenti più protezionisti e meno favorevoli all’impresa che provengono dai Paesi del sud dell’Europa.

Cosa prevede per i prossimi mesi per il Regno Unito?
Lo scenario complessivo è confuso, ma l’economia britannica, che è relativamente derogolamentata, soprattutto se la si confronta con Paesi europei analoghi, ha gli strumenti per adattarsi alla maggior parte dei cambiamenti. Sul fronte europeo, credo (e auspico) che il governo britannico sarà costretto a trovare un qualche accordo per consentire ai lavoratori stranieri della UE di restare, il contrario non avrebbe senso e l’unica ragione per cui questa possibilità è rimasta fino ad oggi nelle retrovie è per utilizzarla più avanti come strumento di contrattazione.