Benedetto XVI, lezione sul Vaticano II
Presentata come una «piccola chiacchierata» con i parroci di Roma, la lezione sul Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto il 14 febbraio rimarrà invece tra i testi fondamentali della sua eredità teologica e pastorale.
Presentata come una «piccola chiacchierata» con i parroci di Roma, la lezione sul Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto il 14 febbraio - parlando a braccio (e qui abbiamo voluto conservare il sapore della trascrizione dal parlato), con visibile fatica fisica ma con straordinaria lucidità mentale - rimarrà invece tra i testi fondamentali della sua eredità teologica e pastorale.
Riprende, oltre sette anni dopo, il primo grande discorso, quello del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana dove condannava quell'«ermeneutica della discontinuità e della rottura» che, per esaltarlo o per criticarlo, legge il Concilio come frattura radicale con il Magistero precedente, e proponeva invece una «ermeneutica della riforma nella continuità». Si tratta di una cifra fondamentale del pontificato di Benedetto XVI e di un'eredità che, congedandosi dal clero di Roma, ha voluto consegnare con forza al suo successore.
Tutti gli altri grandi temi di Papa Ratzinger - la rivendicazione della verità naturale e la denuncia della dittatura del relativismo, la fondazione filosofica e teologica della libertà religiosa come premessa alla sua strenua difesa ovunque, il rilancio della dottrina sociale intorno ai principi non negoziabili - stanno o cadono con la sua interpretazione del Concilio.
Certo, molta acqua è passata sotto i ponti di Roma dal 2005, e molti non hanno accolto l'indicazione ermeneutica del Papa, ritenendo che sia impossibile interpretare il Vaticano II in continuità con il Magistero precedente, perché - sostengono - la corrente teologica che vi si manifestò come dominante aveva in effetti propositi di rottura.
In uno dei suoi ultimi discorsi Benedetto XVI ieri ha battuto in breccia questa storiografia - progressista o ultra-conservatrice -, prendendola per così dire di petto e affermando, con la sua autorità sia di padre conciliare sia di Pontefice, che sì, una volontà d'innovazione anche radicale vi fu, ma furono soltanto i media a interpretare questo desiderio di riforma come ostile alla continuità, creando un nefasto «Concilio virtuale». È stato questo Concilio come evento mediatico, non il Concilio come insieme di documenti e neppure come evento storico reale, a determinare la gravissima crisi post-conciliare.
Al Vaticano II, ha esordito il Papa, io c'ero. Ne parlo, sembra dire, con cognizione di causa. E c'ero anche negli anni, spesso capiti male, che prepararono il Concilio. «Io - ha raccontato Benedetto XVI - ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il cardinale di Colonia, il cardinale [Josef] Frings [1887-1978]. Il cardinale [Giuseppe] Siri [1906-1989] di Genova, – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze, con diversi cardinali europei, sul Concilio e aveva invitato anche l’arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, dal titolo: “Il Concilio e il mondo del pensiero moderno”.
Il cardinale mi ha invitato - il più giovane dei professori - a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, questo testo, come io l’avevo scritto». La conferenza scritta dal giovane professor Ratzinger per il cardinale Frings accennava a una serie di riforme necessarie e a un cambiamento di mentalità nei rapporti con il mondo contemporaneo. Il cardinale tedesco la lesse, ma subito cominciò a preoccuparsi che avesse causato dispiacere in Vaticano.
«Poco dopo - ha proseguito Benedetto XVI - Papa Giovanni [XXIII, 1881-1963] lo invita a venire e lui era pieno di timore di avere detto forse qualcosa di non corretto, di falso e sarebbe stato interpellato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora... Sì … quando il suo segretario lo ha vestito per l’ udienza, ha detto: "Forse adesso porto per l’ultima volta questa roba"....Poi, è entrato. Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia e dice: "Grazie, eminenza, lei ha detto che cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole"'».
L'aneddoto ha fatto sorridere i parroci romani, ma per il Pontefice è importante. Serve a spiegare dove si collocava lui in relazione al Concilio. «Così, il cardinale sapeva di essere sulla strada giusta, e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale, poi – nel corso del primo periodo, forse nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio». E i periti del Nord Europa, tra cui il giovane Ratzinger, volevano davvero una svolta decisiva: «Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. Era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, veramente che venisse una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta, in quel tempo: la prassi domenicale ancora buona, anche le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti».
Eppure il Papa nega con forza la tesi secondo cui prima del Vaticano II tutto andava bene: «tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, ma si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E adesso, speravamo che questo rapporto si rinnovasse, si cambiasse». Quello che questi teologi, tra cui Ratzinger, auspicavano era in effetti un nuovo rapporto con la modernità, che superasse le controversie emerse fin dal caso di Galileo Galilei (1564-1642).
E i teologi del Nord Europa avevano un modello da criticare, quello del Sinodo romano, che avrebbe dovuto essere - ma non fu - la prova generale del Concilio e «dove si dice che avrebbero letto testi già preparati, e i membri del Sinodo avrebbero semplicemente approvato e così si sarebbe svolto il Sinodo».
Al Vaticano II, «i vescovi hanno concordato di non fare così in quanto loro stessi sono i soggetti del Concilio». E cominciarono «subito, il primo giorno» a rifiutare le liste e i nominativi delle commissioni preparati dalla Curia perché non volevano «semplicemente votare liste già fatte». «Non era un atto rivoluzionario ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari». È anche vero, ha detto Benedetto XVI, che le sedute del Concilio furono spesso preparate da «piccoli incontri trasversali» in cui egli stesso ebbe modo d'interagire con teologi decisivi per la redazione dei documenti, tra cui i padri e futuri cardinali Henri-Marie de Lubac S.J. (1896-1991), Jean Daniélou S. J. (1905-1974) e Yves Congar O.P. (1904-1995). E quelli che erano venuti a Roma con le «intenzioni più definite erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la così detta “Alleanza renana”. E nella prima parte del Concilio erano loro che indicavano la strada».
Gli storici che parlano dell'Alleanza renana e degli «incontri trasversali» hanno dunque ragione sul fatto. Ma, ha aggiunto Benedetto XVI, hanno completamente torto nell'interpretazione, se pensano - celebrandoli o deprecandoli - che quegli incontri avessero lo scopo di sovvertire la Chiesa. No: erano piuttosto «un’ esperienza della universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non semplicemente riceve imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro».
Che cosa volevano i padri «renani», che finirono per indirizzare la prima parte del Concilio? La loro «prima intenzione», testimonia il Pontefice, «era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII [1876-1958]» e con le sue innovazioni sulla Settimana Santa. La liturgia, dunque, non era affatto un elemento secondario del programma di rinnovamento conciliare. Dopo la Seconda guerra mondiale era infatti emerso nella Chiesa il cosiddetto movimento liturgico, come «riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia». Questa poteva sembrare «quasi chiusa» nel Messale Romano del sacerdote, e «aperta» invece nei libri di preghiera dei fedeli, con il rischio di creare «quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, e i laici che pregavano nella Messa con i loro libri di preghiera».
Non che fosse colpa del Messale Romano: il Concilio voleva difendere «proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale», nello stesso tempo però riformando e instaurando un vero «dialogo tra sacerdote e popolo» con la sua nozione di «partecipazione attiva». Qualcuno - ha detto il Papa - «ha criticato il Concilio perché parlava di tante cose, ma non di Dio»: invece, scegliendo di partire dalla liturgia, «ha parlato di Dio e il suo primo atto è stato quello di parlare di Dio e di aprire a tutto il popolo santo la possibilità dell’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo».
Anche il passaggio dal latino al volgare, che avvenne non al Vaticano II ma dopo il Concilio, voleva promuovere l'intelligibilità della Messa. Ma «intelligibilità non significa "banalità", perché i grandi testi della liturgia – anche nelle lingue parlate - non sono facilmente intellegibili», «hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano, perché cresca ed entri sempre più nella profondità del mistero e così possa comprendere».
Non c'è garanzia che un testo sia capito «solo perché è nella propria lingua». «Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità», e la vera partecipazione attiva «è più di una attività esteriore, è un entrare della persona, del mio essere nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo».
Il Concilio mediatico - da non confondere con il Concilio reale - ha presentato erroneamente tutto questo come un abbandono della sacralità. «La sacralità, dicevano, è pagana, Cristo è morto fuori dalle porte del Sacro, va esaltata la profanità del culto come partecipazione comune. Concetti nati in una visione del Concilio fuori dalla sua propria chiave della Fede», e neppure veramente biblici perché basati su una errata concezione della Sacra Scrittura come se fosse «un Libro storico da trattare storicamente e nient'altro».
Il Vaticano II ha dunque consacrato il suo primo documento alla liturgia, e si è poi concentrato su due idee essenziali: il mistero pasquale e la Chiesa. Il mistero della Redenzione «è espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione», qualche cosa che oggi stiamo completamente perdendo, interpretando la domenica come l'ultimo giorno della settimana mentre è invece il primo.
Quanto alla Chiesa, il Pontefice ha ricordato che il Concilio Vaticano I si era interrotto a causa della guerra franco-tedesca e così aveva sottolineato solo la dottrina sul primato del Papa e dell'infallibilità. Benedetto XVI non condivide le critiche a questa dottrina, che è stata definita «grazie a Dio in quel momento storico» e «per la Chiesa era molto necessaria per il tempo seguente». Ma, se il Vaticano I non fosse stato interrotto, dopo il primato e l'infallibilità si sarebbe passati a parlare del Corpo mistico di Cristo: già allora «si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale, anche questo, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale».
In questo senso, il venerabile Pio XII scrisse poi l’enciclica «Mystici Corporis», «come un passo verso un completamento della ecclesiologia del Vaticano I». Ma successivamente, già negli anni 1950, «era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: mistico - qualcuno diceva - sarebbe troppo esclusivo», e dunque la nozione della Chiesa come Corpo mistico non andava abbandonata, ma integrata con quella della Chiesa come popolo di Dio, un concetto a sua volta non nuovo e che «nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Noi pagani, non siamo di per sé il popolo di Dio, ma diventiamo adesso figli di Abramo e quindi popolo di Dio, entrando in comunione con il Cristo che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi popolo di Dio», uniti nella comunione eucaristica.
Applicando queste categorie nella pratica, il Concilio cercava di definire meglio il ruolo dei vescovi. «E per fare questo - ha detto il Papa - è stata trovata la parola "collegialità", molto discussa con discussioni accanite, direi, un po’ esagerate anche».
Secondo Benedetto XVI era però tutto sommato la parola giusta «per esprimere che i vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del corpo degli Apostoli», anche se solo il Papa è successore di Pietro. Pure sulla questione della collegialità vi è stato un vivo dibattito al Concilio. Ma anche questo acceso dibattito non è bene inteso da alcuni storici. «Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno ha pensato al potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del corpo della Chiesa con i vescovi, successori degli apostoli come elementi portanti», mai però separati dal Papa.
Altri temi forti del Concilio furono quelli della libertà religiosa e del dialogo con i non cristiani. Inizialmente al Concilio «i nostri amici ebrei dicevano che, dopo gli avvenimenti tristi del nazismo, la Chiesa doveva dire una parola sull'Antico Testamento e sul popolo ebraico, anche se era chiaro che la Chiesa non era responsabile della Shoah». Ben presto, però, «sì capì anche che i vescovi dei Paesi arabi non erano felici e temevano una glorificazione dello Stato di Israele, che naturalmente non volevano. Dissero che andava bene una indicazione teologica sul popolo ebraico, era necessaria, ma allora bisognava parlare anche sull'islam». Altri rilevarono che, se si parlava dell'islam, occorreva occuparsi anche del buddhismo e dell'induismo, «e così la dichiarazione iniziale sul Popolo di Dio e l'Antico Testamento divenne una dichiarazione sul dialogo interreligioso».
Sull'islam, come su altri temi, il Concilio non andò forse sufficientemente a fondo: ma fu, secondo il Papa benemerito e preveggente, come lo fu in altri documenti. Perché, allora, dopo il Concilio c'è stata una crisi nella Chiesa con «miserie, seminari e conventi chiusi»? La colpa - ha affermato il Pontefice criticando ricostruzioni storiografiche diverse, sia progressiste sia ultra- conservatrici -, non solo non fu dei testi ma neppure dell'evento Concilio come realmente si svolse nella storia. La crisi venne dall'evento parallelo creato dai media, che in realtà non coincideva con quanto davvero era accaduto a Roma.
«Il mondo ha percepito il Concilio dei media - ha detto il Pontefice -, non quello dei padri, quello della fede». «Il Concilio dei giornalisti ha un'ermeneutica diversa, politica: il concilio era lotta di potere fra fazioni della Chiesa. Fra chi cercava la decentralizzazione della chiesa, un ruolo per i laici e la sovranità popolare e chi insisteva per culto e partecipazione. La banalizzazione del Concilio è stata violenta, ha prevalso una visione nata fuori della fede» che è stata una vera e propria «calamità».
Accanto al «Concilio reale», che lo Spirito Santo guidò - sì, anche attraverso le controversie e gli incontri privati - a produrre documenti che sono ancora oggi una bussola sicura per la Chiesa, emerse nei media un «Concilio virtuale», presentato come rottura con tutto quanto era avvenuto prima. Purtroppo nei decenni successivi al Vaticano II «il Concilio virtuale è stato più forte del Concilio reale»: ha scardinato tanti aspetti della vita della Chiesa, determinando fraintendimenti gravissimi.
E tuttavia Benedetto XVI lascia un'eredità precisa, che non è pessimista. Rifiutata da molti intellettuali progressisti e ultra-conservatori, l'ermeneutica della riforma nella continuità si sta affermando tra tanti sacerdoti e fedeli. Così, «50 anni dopo il Concilio vero appare nella sua forza». «Il nostro compito nell'anno della Fede è che il vero Concilio Vaticano II si realizzi». Un compito che Papa Ratzinger affida a tutta la Chiesa, ma che sarà indirizzato e guidato dal suo successore. «Mi ritiro adesso in preghiera – ha detto infatti ai parroci romani –, sono sempre vicino a voi e sono sicuro che anche voi sarete vicino a me, anche se per il mondo rimango nascosto».