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IL LATINO SERVE A TUTTI/XXXVII

Alla riscoperta del significato autentico del "carpe diem"

Oggi associamo il carpe diem all’immagine di un uomo che, rescisso il legame con il mistero, con Dio, con la tradizione passata e con una prospettiva futura, può finalmente vantarsi di essere libero di assaporare tutti i piaceri, di andare oltre ogni limite, di esagerare senza dover più rendere conto a nessuno. Invece l'espressione significa vivi con intensità il presente cercando la felicità qui e ora. 

Cultura 09_12_2018

«Carpe diem» è espressione che tutti conoscono, amanti o meno del latino, esperti o meno della cultura classica. Indubbiamente ha assunto oggi un significato che è ben distante da quello originario che gli aveva attribuito Orazio, il poeta per eccellenza della lirica latina, autore di quell’ode undicesima del primo libro dei Carmina da cui è prelevata.

Oggi associamo il carpe diem all’immagine di un uomo che, rescisso il legame con il mistero, con Dio, con la tradizione passata e con una prospettiva futura, può finalmente vantarsi di essere libero di assaporare tutti i piaceri, di andare oltre ogni limite, di esagerare senza dover più rendere conto a nessuno. L’espressione sottolinea ancora una libertà totale, exlege, intesa come autonomia da rapporti e da impegni, spensieratezza dimentica del tempo e di una prospettiva, scevra del destino e di un compimento. Vivi l’istante per l’istante senza alcun legame con il bene, con la verità, con la saggezza. Sinteticamente potremmo definire la cultura contemporanea veicolata da un certo mondo massmediatico e cinematografico come la gaia disperazione degli uomini senza Dio.

Un esempio su tutti. Ricordo ancora quando anni fa un mio studente mi disse: «Sa professore, ho visto un film, Notte prima degli esami, che mi ha fatto capire perché valga la pena vivere. Un personaggio del film sostiene che nella vita è importante non ciò che troviamo alla fine della strada, cioè il destino, ma l’emozione che abbiamo provato lungo il cammino». Qualche mese più tardi il ragazzo morì in un incidente in moto. Morire a vent’anni di troppo desiderio di vita o, forse, perché non si è ancora compreso il motivo per cui valga la pena davvero faticare, alzarsi al mattino, prendersi le proprie responsabilità, far famiglia, etc.

Il messaggio di quel film, come di tanti altri film, testimonia la cultura imperante oggi. Non sono tanto importanti la strada e la meta cui essa conduce, quanto l’emotività, la suggestione del momento, l’intensità dell’istante slegato completamente dal bene, dalla realizzazione, dal compimento. Vivi l’istante per l’istante sembra essere l’imperativo categorico di oggi, in un becero e superficiale «carpe diem», che sprona in realtà a considerare come momenti forti solo il sabato sera, le feste, la notte, e a stimare di poco conto tutto quanto è quotidianità e normalità.

Ma cosa intendeva davvero Orazio con l’espressione carpe diem»? Per recuperarne il significato autentico è necessario rileggere l’ode:
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias: vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

In traduzione: Tu non chiedere, è vietato sapere, quale fine a me, quale a te
gli dei abbiano assegnato, o Leuconoe, e non consultare
la cabala babilonese. Quanto (è) meglio, qualsiasi cosa sarà, accettarla!
Sia che Giove abbia assegnato più inverni, sia che abbia assegnato come ultimo
quello che ora sfianca con le scogliere di pomice che gli si oppongono il mare
Tirreno, sii saggia: filtra il vino e ad una breve scadenza
limita la lunga speranza. Mentre parliamo sarà fuggito, inesorabile,
il tempo: cogli il giorno, il meno possibile fiduciosa in quello successivo.

Una triplice negazione apre la poesia: «ne quaesieris», «nefas», «nec […] temptaris numeros» ovvero «non chiederti», «è vietato», «non consultare». La parola «nefas» indica le azioni che si oppongono alla legge divina (che coincide con il termine «fas», mentre la legge umana è in latino lo «ius»). Gli dei non consentono all’uomo di conoscere il futuro, pertanto cercare di farlo è atto di empietà, che verrà punito non tanto dalle divinità, ma dall’impossibilità di vivere e assaporare il presente.

A parlare è Orazio rivolgendosi a Leuconoë, ragazza probabilmente non reale, ma fittizia, il cui nome significa «dalla mente candida», colei che non conosce ancora la vita, che è ancora spensierata.  È inutile pertanto consultare gli astrologi caldei che cercano di comprendere il destino degli uomini attraverso la posizione delle stelle. Molti romani appartenenti alla classe dirigente si rivolgono a loro. È preferibile sopportare con forza, non passivamente, tutto quanto accadrà. Questo indica qui il verbo latino «pati», una rassegnazione saggia di stampo epicureo, dovuta al fatto che in ogni caso il destino è immutabile e già fissato al momento della nascita. La vita potrà essere ancora lunga per Leuconoë oppure breve.

Con grande perizia poetica Orazio si avvale qui dell’immagine del mare Tirreno che, antropomorfizzato, si va a schiantare contro le scogliere durante le tempeste invernali. Il poeta ci introduce, così, al torpore dell’inverno che simbolicamente rappresenta la conclusione della vita. Ecco, allora, il consiglio di una persona che ha già sperimentato e compreso la fugacità del tempo: «sii saggia» («sapias») e «filtra il vino» («vina liques»). Al tempo di Orazio i Romani filtravano le impurità del vino facendolo passare attraverso un sacchetto di tela o un vaso metallico forato e pieno di neve. Questa procedura permetteva di assaporare meglio il gusto puro del vino.

Il verbo «sapio» indica sia «aver sapore» che «essere saggio». Bellissima è la duplicità semantica del verbo «sapere». La concretezza del lessico latino continua nel verbo seguente «resecare» che significa «tagliare i rami troppo lunghi». L’interlocutore di Orazio, immaginario o reale che sia, è invitato a non riporre la speranza della propria felicità nel futuro lontano. Non sappiamo quanto vivremo. «Tempus fugit», il tempo fugge, è invidioso della nostra felicità, della giovinezza, dell’amore.

Il verbo «carpo» esprime la lacerazione e lo strappo di una parte dal tutto, ad esempio la separazione di una foglia dal ramo o il piluccare un grappolo d’uva. La foglia da staccare, da cogliere è il «dies» che deve essere disgiunto dal tempo nel suo insieme («aetas»). In altre parole, «carpe diem» significa vivi con intensità il presente, ogni attimo, cercando la felicità nell’hic et nunc, qui e ora. Che questo sia il significato autentico di Orazio è confermato dal secondo emistichio del verso conclusivo «quam minime credula postero» che significa letteralmente «riponendo il meno possibile la speranza della vita nel futuro».