Lutto nazionale a orologeria, una "papale" contraddizione
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Dalle celebrazioni del 25 aprile allo spostamento delle partite, lo Stato italiano si fa carico dell'estremo saluto al pontefice con un balletto di decisioni piuttosto incoerente. L'emotività è umana, ma la lucidità è necessaria.

È certamente comprensibile il profondo cordoglio suscitato dalla scomparsa di papa Francesco. Era prevedibile, dunque, la grande mobilitazione di persone provenienti da ogni angolo del mondo per rendergli omaggio e partecipare alle esequie.
Tuttavia, questo coinvolgimento emotivo, per quanto legittimo, non dovrebbe oscurare la necessità di un giudizio lucido, critico e obiettivo su come questo lutto sia stato gestito dalle autorità politiche italiane. Perché se la morte di un papa, per quanto carismatico, rappresenta senza dubbio un evento di rilevanza globale, altrettanto globale dovrebbe essere la risposta, mentre l’Italia ha deciso di caricarsi sulle spalle un lutto che sembra più di Stato che non di Chiesa, un lutto che ha assunto contorni sproporzionati e, sotto certi aspetti, stridenti. A partire dalla decisione di proclamare cinque giorni di lutto nazionale: una misura di una portata quasi inedita, difficilmente giustificabile con la semplice prossimità territoriale tra l’Italia e lo Stato della Città del Vaticano.
La Chiesa, infatti, è universale: è nel mondo ma non è del mondo, e se davvero si fosse voluto rendere conto della sua dimensione planetaria, allora si sarebbe dovuto proclamare il lutto a livello globale, non solo italiano. Ma così non è stato, ed è difficile non leggere in questa scelta una forte componente politica. Ancor più se si considera che questi cinque giorni di lutto sono andati a sovrapporsi a una ricorrenza fondamentale per la nostra Repubblica: la Festa della Liberazione, che quest’anno compie ottant’anni. Un anniversario che avrebbe dovuto rappresentare un momento di coesione, memoria collettiva e riaffermazione dei valori fondativi della nostra democrazia.
E invece il lutto nazionale ha oscurato, se non offuscato del tutto, il 25 aprile, creando l’impressione – legittima – che il governo abbia colto l’occasione per depotenziare una ricorrenza che, da sempre, viene considerata scomoda da alcune forze politiche. Non è forse un caso che il ministro per la protezione civile, Nello Musumeci, in un’uscita quantomeno infelice, abbia invocato “sobrietà” nelle celebrazioni, come se si stesse parlando di una festa di Carnevale o di un ricevimento mondano, e non di una delle date fondative della nostra identità nazionale.
Le opposizioni hanno reagito con veemenza, e non senza ragioni: non solo perché si è tolto loro uno spazio simbolico di confronto politico, ma anche perché si è lanciato un messaggio ambiguo, quasi a voler relegare la Liberazione a una festa di parte, anziché un patrimonio condiviso. Poi però va detto, con altrettanta onestà intellettuale, che in passato la sinistra, anche con iniziative discutibili, spesso dai risvolti violenti, ha strumentalizzato il 25 aprile per finalità prettamente politiche, trasformandolo in una festa di partito o poco più e penalizzando tutti gli italiani antifascisti ma non di sinistra.
La gestione del lutto nazionale è comunque risultata contraddittoria anche in altri ambiti. Si pensi alla Serie A di calcio: le partite sono state disputate regolarmente la domenica di Pasqua, che rappresenta il culmine del calendario liturgico cristiano, mentre sono state sospese il lunedì di Pasquetta, non per una scelta religiosa, ma per rispetto verso la morte del Papa. Per poi riprendere il giorno successivo, in un balletto di decisioni che appare più dettato da esigenze d’immagine che non da una reale coerenza. E ancora, la partita Inter-Roma, inizialmente prevista per il giorno dei funerali del Papa, è stata spostata di ventiquattro ore, quindi a domenica 27 aprile, in un’ulteriore dimostrazione di un atteggiamento schizofrenico e poco lineare. Un lutto nazionale che si trasforma in una gestione ad orologeria, a seconda delle convenienze, delle pressioni e dei simbolismi del momento.
Tuttavia il paradosso più inquietante è quello che riguarda la spettacolarizzazione della morte. Non appena si è diffusa la notizia della scomparsa di papa Francesco, i social si sono trasformati in un gigantesco album commemorativo, dove ognuno si è affrettato a pubblicare la propria foto con il Pontefice. Un gesto umano, certo, ma che ha rapidamente assunto i toni dell’omologazione mediatica, quasi che l’assenza di un selfie con il Papa significasse appartenere a una fede di serie B, o addirittura essere esclusi da un momento di raccoglimento collettivo. Una iconografia unica, totalizzante, dove la morte del Pontefice è diventata pretesto per una nuova forma di narcisismo spirituale, in cui il dolore è mostrato, condiviso, ostentato, piuttosto che vissuto in silenzio.
In tutto questo, l’ipocrisia appare palpabile: si chiede sobrietà per la Liberazione, ma si permette la messinscena di una morte elevata a evento mediatico; si fermano le partite per lutto, ma si gioca a Pasqua; si proclama il lutto nazionale in nome della vicinanza alla Chiesa, ma si dimentica che la Chiesa stessa, per voce del suo stesso Pontefice, ha sempre rifiutato la logica del potere e dell’apparenza.
E allora ci si chiede se tutto questo clamore, questa teatralizzazione del lutto, questa corsa alla commozione pubblica, non sia in contraddizione profonda con l’eredità del Papa stesso. Il lutto è un tempo dell’interiorità, del raccoglimento, della riflessione. Non del protagonismo. Non dell’opportunismo politico. Non della sovrapposizione simbolica tra religione e Stato. E invece, ancora una volta, l’Italia ha dato prova di quanto fatichi a distinguere l’istituzione dallo spettacolo, il rispetto autentico dalla retorica obbligatoria. La morte di Papa Francesco meritava, questa sì, vera sobrietà, oltre che silenzio, preghiera, coerenza. Ha ricevuto, invece, un palcoscenico.