Dottrina e pastorale, non c’è spazio per le contraddizioni
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La “svolta pastorale” dell’ultimo pontificato ha fatto sì che si sia teorizzato che lo sviluppo del dogma possa risolversi nel suo contrario. Al nuovo Pontefice il compito di riproporre il genuino e vitale senso della verità.

In vista del prossimo Conclave pubblichiamo una serie di articoli di approfondimento ispirati al documento firmato da Demos II (un cardinale in anonimato) che fissava le priorità del prossimo Conclave per riparare alla confusione e alla crisi create dal pontificato di Francesco.
Dottrina e pastorale: è più che mai necessario ritornare su questo punto, il cui fraintendimento è alla base della cosiddetta “svolta pastorale”, quel “cambio di paradigma” che si è imposto nell’ultimo pontificato e che ha sovvertito il senso dello sviluppo del dogma nella Chiesa. Il punto è cruciale: da esso dipendono la permanenza della Chiesa e del suo insegnamento nelle diverse contingenze storiche e nelle differenti realtà culturali, ossia la permanenza della Chiesa nel mezzo dei continui «venti di dottrina», delle «correnti ideologiche», delle «mode del pensiero» che sempre agitano le acque di questo mondo e fanno naufragare non solo singoli uomini, ma intere società.
Il «radicale cambio di paradigma» evocato da Francesco nella Costituzione apostolica Veritatis Gaudium (n. 3), prontamente rilanciato dal Cardinale Blaise Cupich per riferirlo al rapporto tra dottrina morale e scelte pastorali, non ha come riferimento il fisico e filosofo Thomas Khun (che di questo dissertò nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche), ma piuttosto il teologo gesuita Christoph Theobald, al quale si deve anche l’enfasi sul “processo” tanto cara a Francesco. La natura pastorale del Concilio Vaticano II, nella prospettiva del processo e del cambio di paradigma, significa che si tratta di un “concilio aperto”, ossia di un concilio il cui insegnamento non può essere interpretato secondo i consueti principi teologici di comprensione dei suoi testi nella continuità dell’insegnamento della Chiesa, ossia, secondo la nota espressione di San Vincenzo di Lerins, presente nel Concilio Vaticano I non meno che nel discorso Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII, lo sviluppo di un insegnamento eodem sensu eademque sententia (secondo lo stesso significato e lo stesso giudizio).
Nella prospettiva di Theobald, il deposito della fede dev’essere inteso come un tutto, un nucleo valoriale, piuttosto che un insieme di precise verità; un nucleo plastico, che prende forme diverse in base al contesto di ricezione. Secondo questa logica, non ha alcun senso porsi il problema della continuità delle verità del depositum fidei, perché la svolta pastorale del concilio indicherebbe propriamente il fatto che questo “insieme valoriale” della fede può e deve ogni volta essere riplasmato all’interno della conciliarità (oggi diremmo della sinodalità), in un processo costante di reinterpretazione che prende la forma di coloro ai quali è trasmesso. La conciliarità/sinodalità costituisce dunque una dimensione essenziale della rivelazione, perché non si darebbe rivelazione senza questo contesto che della rivelazione plasma e riplasma continuamente il senso. Rivelazione come processo, dunque. È da questa distorta prospettiva che è nata la necessità di radunare in continuazione dei sinodi e da essa discende la ragione per cui questi sinodi sono divenuti rappresentanze delle diverse componenti della Chiesa (laici e chierici, giovani e vecchi, uomini e donne, omo e trans, etc.), anziché sinodi della Chiesa docente, ossia dei vescovi, come nell’intenzione di Paolo VI.
Si comprende dunque che, mentre per il Magistero risultava essenziale citare il Commonitorium per conservare il dogma nel suo inevitabile e benefico sviluppo, nella luce del “cambio di paradigma” la stessa opera viene manipolata per supportare uno sviluppo senza continuità di contenuto.
Il cuore dell’opera di San Vincenzo di Lerins può infatti essere riassunta nel principio «eadem tamen quæ didicisti ita doce, ut cum dicas nove, non dicas nova – Insegna esattamente quanto hai appreso, così che mentre dici cose in modo nuovo, tu non dica cose nuove» (Commonitorium, 309); nell’ultimo pontificato è invece stata menzionata, estrapolandola dal testo fino a farle dire il contrario di quanto afferma, solo questa citazione, riferita alla tradizione: «ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate – si consolidi negli anni, si sviluppi col tempo, si approfondisca con l’età» (Commonitorium, 23).
La citazione è presente nella nota 98 dell’enciclica Laudato sì’, poi ripresa in un discorso dell’11 ottobre 2017 in riferimento al cambiamento del Catechismo della Chiesa Cattolica sulla pena di morte, quindi nuovamente riproposta in occasione dei due ultimi sinodi: in chiusura del Sinodo sull’Amazzonia (26 ottobre 2019) e ai fedeli della diocesi di Roma in occasione dell’apertura del Sinodo sulla sinodalità. Momenti strategici, se si pensa che queste citazioni sono state riproposte per supportare una discontinuità dell’insegnamento della Chiesa sulla pena capitale e per indicare il senso del processo sinodale di incessante reinterpretazione pastorale della Rivelazione. In sostanza, San Vincenzo di Lerins è stato piegato per supportare quell’ermeneutica della rottura che la Chiesa non può accettare per nessun documento del Magistero.
L’urgenza di tornare con onestà all’insegnamento integrale di San Vincenzo di Lerins, tutto incentrato sulla differenza tra profectus e permutatio nella progressiva comprensione della Rivelazione di Dio da parte della Chiesa, si impone da sé. La Chiesa è stata fondata sulla solidità della professione di fede di Pietro, non sulla liquidità del pensiero di certi teologi. Profectus è sviluppo organico che chiarifica, approfondisce, amplia, sussumendo sempre la verità precedentemente insegnata e conservandone il significato (eodem sensu eademque sententia); permutatio è alterazione, corruzione, permutazione del significato di quanto insegnato. La differenza tra i due non si limita a, ma passa necessariamente per una continuità logica dell’insegnamento.
L’impostazione della Chiesa è dunque del tutto opposta al paradigma pastorale sopra descritto, che si è illecitamente e furtivamente imposto nell’ultimo pontificato. Si impone l’urgenza di recuperare il genuino senso di sviluppo del dogma nel contesto della riabilitazione di una corretta relazione tra dottrina e pastorale. Certamente, la dimensione pastorale non è l’asettica applicazione di principi dottrinali, e tuttavia questi ultimi devono essere la luce che anima e verifica le scelte pastorali guidate dalla virtù della prudenza. Solo se la verità continuerà ad essere percepita come il bene della conoscenza, e la conoscenza come la luce che orienta la vita dell’uomo, sarà possibile uscire dalla falsa alternativa tra un depositum inteso come qualcosa di stantìo e il cambio di paradigma sopra delineato, per ritrovare il genuino e vitale senso della verità, che ha caratterizzato la storia della Chiesa, e di cui abbiamo avuto un luminoso esempio nella storia recente, con la splendida figura di San John Henry Newman. Senza questa chiarificazione, la Chiesa rimane esposta alla divisione, nella rottura del proprio presente con il proprio passato e potenzialmente del proprio futuro con il proprio presente, così come separazioni nella presente Chiesa visibile, per il venir meno della forza unificante e pacificante della verità.
4. continua
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