Venezuela, un "lager a cielo aperto" dove la fame è un'arma
Il Venezuela, sotto Chavez e adesso sotto Maduro, è ormai “un lager a cielo aperto”. Un’affermazione forte, fatta dall’avvocato Tamara Suju, venezuelana naturalizzata spagnola, specializzata in diritti umani. All'Oas, Organizzazione degli Stati Americani, ha denunciato centinaia di casi di tortura. E soprattutto l'uso della fame usata come arma, come strumento di repressione e di controllo politico e sociale dal regime di Maduro. Dal 2016, sta lavorando per portare il presidente autocrate a cospetto del Tribunale Penale Internazionale. Intervistata dalla Nuova Bussola Quotidiana, Tamara Suju ci parla degli orrori del regime, degli errori delle democrazie, della persecuzione subita dalla Chiesa e di una presa di coscienza necessaria.
Il Venezuela, sotto Chavez e adesso sotto Maduro, è ormai “un lager a cielo aperto”. Un’affermazione forte, fatta dall’avvocato Tamara Suju, venezuelana naturalizzata spagnola (Madrid le ha concesso la cittadinanza quest’anno), specializzata in diritti umani. La Suju ha denunciato all’Oas, l’Organizzazione degli Stati Americani, centinaia di casi di tortura documentati, dati che riguardano un arco di tempo ampio, dal 2002 al 2014, aggiornati dopo la repressione delle proteste del 2017, ma che rappresentano solo la punta di un iceberg.
Il quadro che Tamara Suju dipinge del Venezuela ha dell’incredibile, una “distopia” (utopia negativa) realizzata. È un paese in cui manca tutto, cibo, medicinali essenziali. La povertà assoluta e la mortalità infantile hanno raggiunto livelli senza precedenti e l'emigrazione di massa (4 milioni di venezuelani sono già all'estero) è diventata essa stessa una crisi umanitaria. Ma manca soprattutto la possibilità di esprimersi, di muoversi liberamente. “Quando torturano uno studente – ci spiega – è come se li stessero torturando tutti, è un avvertimento ai suoi compagni, ai genitori, agli amici. Quando torturano un giornalista, o un oppositore, è un avvertimento pesante a tutti i membri della categoria”. La Suju sta lavorando, dal luglio del 2016, per portare il regime di Maduro a cospetto del Tribunale Penale Internazionale. La Nuova Bussola Quotidiana le ha chiesto prima di tutto, se la fame, ormai endemica in Venezuela, possa considerarsi un crimine. Ci risponde che: “Sì, può essere considerato un crimine, assolutamente”.
In che senso la fame può essere considerata un crimine?
Il dossier presentato all’Oas si rifà direttamente allo statuto di Roma e contempla sette tipologie di crimini, fra cui la violenza sessuale, l’arresto arbitrario, le esecuzioni extragiudiziali e la tortura. Ma anche l’uso della fame come strumento di controllo sociale e politico. La borsa dei beni primari viene distribuita soltanto ai simpatizzanti del regime. La tessera particolare chiamata “carnet della patria” è una carta di identità parallela, oltre che una carta bancomat (dunque uno strumento di pagamento elettronico) usata come altra forma di controllo sociale. Chi non la possiede è fuori dal circuito di pagamento ed escluso dagli aiuti statali, oltre che sorvegliato. Il dossier sulla violazione dei diritti umani in Venezuela è stato sottoscritto dai paesi del Gruppo di Lima, cinque sudamericani più il Canada. Hanno sottoscritto non solo il rapporto Oas, ma anche due dossier aggiuntivi, approvati dall’Acnur, l’agenzia per i rifugiati dell’Onu.
In quale forum internazionale si potrebbe ottenere un procedimento contro il regime di Maduro?
Il Parlamento Europeo, meno di un mese fa, ha riconosciuto tre elementi importanti. Innanzitutto: disconoscere l’elezione di Nicolas Maduro e del suo governo, dunque affermando che non ha alcuna legittimità politica. Secondo: riconoscere i documenti prodotti dall’Oas. Terzo: l’impegno per far sottoscrivere a tutti i membri dell’Ue questo documento, dopo i sei paesi del Gruppo di Lima. Tutti assieme possono pretendere che Maduro venga processato dal Tribunale Penale Internazionale, chiedere la liberazione di tutti i prigionieri politici, lo scioglimento dell’Assemblea Costituente e il ripristino del Parlamento quale unico organo legislativo legittimo.
Quanti sono i prigionieri politici in Venezuela?
Sono attualmente circa 300, ma non bisogna farsi ingannare troppo da questo numero. Infatti, il carcere, per i prigionieri politici, è una sorta di porta girevole: tanti ne escono quanti ne entrano ed è frequentissimo che, chi viene scarcerato, venga poi rimesso in carcere poco dopo. Ci sono due tipi di prigionieri politici: persone arrestate per la propria militanza ostile al partito di governo, oppure perché il governo le considera appartenenti ad una categoria politica nemica dello Stato. Fra questi ultimi, attualmente, rientrano soprattutto i militari, ben 160 sono in carcere.
Quanto è diffuso l’uso della tortura sui prigionieri politici?
Sostanzialmente tutti i prigionieri politici sono torturati. Considerando che non c’è solo la tortura fisica, ma anche quella mentale. Ci sono due metodi per spezzare la volontà del prigioniero. Si usano le maniere forti, per infliggergli dolore fisico, nel primo caso. Ma poi lo si isola completamente, con la “tortura bianca”: minacce contro la famiglia, privazione del sonno, internamento in celle di isolamento. Il governo ha costruito carceri speciali in cui si pratica la tortura. E ci sono anche luoghi segreti, ufficialmente non esistenti, in cui vengono incarcerati prigionieri politici.
Il consigliere Fernando Alban è morto di uno strano “suicidio”. Ce ne può parlare di più?
Fernando Alban si era recato a New York per una sessione delle Nazioni Unite sui diritti umani. Durante l’evento aveva accompagnato il leader dell’opposizione Julio Borges (ora esule). Tornando in Venezuela, è stato immediatamente arrestato venerdì 5 ottobre, nel momento in cui ha messo piede all’aeroporto. Nessuna accusa formale, la sua è stata una detenzione arbitraria. Lunedì 8 ottobre, il suo cadavere è stato trovato sotto le finestre della sede del servizio segreto, il Sebin. La tesi ufficiale parla di suicidio, si sarebbe lanciato dal 10mo piano dopo aver chiesto di andare in bagno. Secondo le nostre fonti, invece, è stato pesantemente torturato nella notte fra domenica e lunedì, con l’uso del waterboarding e dell’elettroshock. E sono dei funzionari stessi dei servizi che hanno fatto trapelare queste informazioni alla stampa straniera, confessando che si è trattato di un “interrogatorio andato male”. Alban, dunque, sarebbe stato lanciato dalla finestra già morto, per nascondere le prove. Ci sono alcuni indizi che corroborano questa tesi. Intanto non hanno mai permesso all’avvocato della vittima di accedere ai locali in cui si sarebbe tolto la vita. Non hanno permesso alla famiglia di accedere all’autopsia. Chiunque conosca la sede del Sebin sa che i prigionieri sono sempre scortati e sorvegliati, anche quando vanno in bagno. E le finestre sono sigillate, è impossibile aprirle senza chiave e senza autorizzazione. Anche le dichiarazioni del governo sono contraddittorie.
Cosa sta facendo la Chiesa venezuelana in questa situazione di repressione estrema?
La Conferenza Episcopale è stata la prima a denunciare quel che sta avvenendo. I suoi comunicati sono molto chiari e servono da guida per tutti, anche per noi. Infatti i preti sono considerati nemici dal governo venezuelano. Le chiese sono attaccate anche fisicamente. I sacerdoti subiscono pesanti intimidazioni. Un parroco, padre José Palmar, è dovuto fuggire non solo dalla sua parrocchia, ma dal paese. Era stato inserito in una lista nera e lo avrebbero ucciso. I vescovi stessi sono minacciati, anche solo perché parlano di diritti umani. Questa persecuzione dura tuttora, indipendentemente dai momenti. Hugo Chavez diceva che i vescovi contrari al suo governo erano “diavoli in sottana”, con Maduro la repressione è peggiorata. Squadre di volontari bolivariani scrivono insulti, minacce e oscenità sulle pareti delle chiese. E, appunto, sacerdoti e vescovi sono fisicamente minacciati. Il governo non si sporca mai le mani. Non sono i poliziotti ad attaccare la Chiesa, ma privati cittadini, ufficialmente, militanti, attivisti bolivariani.
Maduro ritiene di aver buoni rapporti con il Papa…
Il Vaticano, però, si è ritirato dal dialogo nel 2016, sentendosi preso in giro, come si può dedurre dalla lettera del cardinale Parolin, il Segretario di Stato. È la dimostrazione che la Santa Sede non considera Maduro come un interlocutore affidabile.
Ma cosa possono fare i paesi democratici per il Venezuela?
Stanno cercando di dialogare con gli strumenti della democrazia, ma non realizzano che si trovano di fronte a un tipo di Stato inedito. Una narco-tirannia…
Cosa intende, che siamo di fronte ad uno Stato narcotrafficante?
È lo stesso Stato venezuelano a gestire la struttura del narcotraffico e soprattutto il suo enorme lavaggio di denaro sporco, derivante dai proventi della droga. Due nipoti della coppia presidenziale sono stati arrestati dalla Dea statunitense e condannati per aver cercato di contrabbandare 800 kg di coca negli Usa. Gli aerei carichi di droga partivano dalla pista presidenziale. Persino i battelli della compagnia petrolifera nazionale sono stati usati per il traffico di droga.
E tornando al punto, allora, come sarebbe possibile agire con uno Stato di quel tipo?
La dottrina è divisa. Secondo alcuni, con sanzioni economiche e disconoscimento della legittimità politica del regime, si toglierebbe l’acqua in cui i chavisti nuotano. Secondo un’altra teoria, al contrario, spinti in un angolo, Maduro e i suoi potrebbero irrigidirsi ulteriormente e la situazione a quel punto potrebbe incancrenirsi. Molti, tuttavia, sono membri del regime solo perché vogliono arricchirsi, non per motivi ideologici. La cosa che importa loro è avere l’impunità, negoziare una buona uscita. Si deve dunque puntare su di loro, fare leva su tutti quegli elementi del regime che non vogliono morire, o quantomeno non vogliono finire la loro vita in un carcere.