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CONTINENTE NERO

Uno sguardo all'Africa che vieta l'emigrazione

Un'altra imbarcazione di emigranti è affondata nel Mediterraneo lo scorso 15 novembre. Mentre l'Ue si interroga sul da farsi, Niger, Etiopia, Arabia Saudita e Kenya cercano di risolvere il problema degli emigranti. A modo loro.

Esteri 18_11_2013
Riyadh, espulsione degli immigrati etiopi

Il 15 novembre un’altra imbarcazione che trasportava degli emigranti diretti verso le coste europee è affondata nel Mediterraneo provocando la morte di 12 persone, tra cui quattro bambini. “Occorre gestire in modo diverso il pattugliamento delle frontiere” aveva dichiarato pochi giorni prima il presidente del consiglio Letta nel corso di una conferenza stampa tenutasi a La Valletta, la capitale di Malta, e c’è bisogno di “una nuova politica europea verso l’Africa, verso l’Oriente”. Soprattutto occorre passare quanto prima ai fatti, a progetti concreti, che dovranno per forza emergere dal prossimo Consiglio dei Ministri dell’Interno europei e dai Consigli europei di dicembre e di giugno.

Il resto del mondo intanto non sta ad aspettare che l’Unione Europea formuli proposte e strategie. Dopo il rinvenimento a fine ottobre di oltre 90 corpi senza vita nel nord del Niger, tutti di emigranti morti di sete dopo essersi smarriti nel deserto, abbandonati al loro destino dagli autisti dei camion in panne che li avrebbero dovuti portare sulle coste algerine, le autorità nigerine hanno deciso di prendere provvedimenti. Le forze di sicurezza hanno l’ordine di arrestare gli emigranti in procinto di intraprendere la traversata del Sahara. Inoltre è stata disposta la chiusura di tutti i campi gestiti dai trafficanti nel nord del paese e di affidare a organizzazioni umanitarie i circa 5.000 emigranti che vi sono accampati, ancora in attesa di essere trasportati in Algeria e di lì imbarcarsi alla volta delle coste europee. In parte sono cittadini nigerini. Gli altri arrivano dagli stati confinanti – Mali, Nigeria… – e da altri più lontani: Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Liberia e persino dall’Eritrea, lontana migliaia di chilometri.

È proprio in ragione dei rischi che corrono gli emigranti che il governo dell’Etiopia il 24 ottobre ha decretato il divieto d’espatrio dei propri cittadini finché non verrà trovata una soluzione definitiva al problema. “Si tratta di salvaguardarne il benessere” ha spiegato il ministro degli esteri etiope Tedros Adhanom nel dare l’annuncio, ricordando che già troppe persone hanno perso la vita e hanno subito torture fisiche e psicologiche a causa del traffico illegale di esseri umani. Molti etiopi cercano di raggiungere l’Arabia Saudita dallo Yemen, affrontando la pericolosissima traversata del golfo di Aden; altri si dirigono verso Sudafrica, Israele ed Europa, seguendo rotte non meno irte di insidie. Una percentuale significativa di emigranti lascia il paese per sfuggire a persecuzioni politiche e a discriminazioni etniche. Ma la mancanza di lavoro è di gran lunga la motivazione prevalente: tra i giovani il tasso di disoccupazione supera il 50%. L’Etiopia nell’Indice di sviluppo umano 2013 delle Nazioni Unite figura al 173° posto su 186 paesi considerati. Il 39% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, vale a dire con meno di 1,25 dollari al giorno.

Non solo ai cittadini etiopi non è più consentito lasciare il paese, ma circa 500 emigranti – tutti provenienti dall’Arabia Saudita – sono rientrati in patria nelle scorse settimane e presto altre migliaia li seguiranno. Il 1° novembre infatti sono scaduti i tre mesi concessi dalle autorità saudite agli stranieri sprovvisti di regolari permessi di soggiorno per sanare la loro situazione e rimanere quindi nel paese. Da allora la polizia ha già proceduto a migliaia di controlli e di arresti. Gli immigrati irregolari vengono concentrati in diversi centri di accoglienza: li attende il rimpatrio, volontario o forzato, e l’iscrizione in una “lista nera”. Le drastiche norme restrittive all’immigrazione sono state decise dalla monarchia saudita nell’ambito delle politiche volte a contenere la disoccupazione che ha raggiunto il 12% e che tra i giovani supera il 30%. Le autorità hanno anche imposto a ditte e imprese delle quote minime di lavoratori sauditi. Sono previste inoltre multe elevate ai datori di lavoro che assumono stranieri privi di permessi di soggiorno. La riduzione della manodopera straniera mira anche a contenere la perdita di denaro provocata dalle rimesse che gli emigranti inviano ai familiari rimasti a casa, che ammontano a più di sette miliardi di dollari all’anno. Non tutti gli stranieri irregolari accettano la loro sorte. A Jedda centinaia di lavoratori indonesiani hanno organizzato manifestazioni davanti al loro consolato e nella capitale Riyadh i quartieri abitati in prevalenza da immigrati sono in rivolta. Gli scontri con la polizia, intervenuta per sedare i tumulti e per evacuare con la forza le abitazioni in cui molti stranieri si sono barricati, hanno finora provocato cinque morti e centinaia di feriti. Nei mesi trascorsi, su un totale di circa nove milioni di immigrati, quattro milioni hanno regolarizzato la loro posizione e due milioni sono stati espulsi.

Anche per i somali fuggiti in Kenya negli oltre vent’anni di guerra civile seguiti alla caduta di Siad Barre nel 1991 è arrivato il momento di tornare a casa. Sono più di un milione, forse due: in parte sono ospitati dell’immenso campo profughi di Dadaab, al confine tra Somalia e Kenya, e in parte vivono nella capitale Nairobi e in altre città. Dopo l’attentato del 21 settembre al centro commerciale Westgate di Nairobi, rivendicato dai terroristi somali al Shabaab legati ad al Qaeda, il governo ne ha deciso il rimpatrio: la loro presenza – sostengono le autorità kenyane – è fonte di insicurezza perché che tra i profughi si nascondono molti terroristi e inoltre in Somalia la situazione, dopo che gli al Shabaab sono stati costretti a lasciare le principali città, è migliorata abbastanza da consentirne il ritorno. Un accordo è già stato firmato da Kenya e Somalia, con la mediazione dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati, che prevede il rientro volontario in patria dei profughi in tre anni.