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DEMOCRAZIA ISLAMICA

Turchia, il volto autoritario del governo Erdogan

Erdogan, attaccato da islamisti rivali e dai laici, sfodera il suo volto autoritario, censurando Twitter e minacciando di oscurare YouTube. Il modello di democrazia islamica è in crisi già da anni. E il premier mostra segni di nervosismo.

Esteri 29_03_2014
Recep Tayyip Erdogan

In Turchia, il modello di “democrazia islamica”, tanto vantato dal premier Recep Tayyip Erdogan e premiato dai governi europei (da ultimo, sono arrivati i complimenti della premier danese Helle Thorning-Schmidt), si sta rivelando un autoritarismo non molto diverso da quello che contraddistingue i vicini Paesi arabi islamici. L’ultimo colpo di testa di Erdogan, censurare il social network Twitter e annunciare la messa al bando di YouTube, è rivelatore di un lungo periodo di crisi e di progressiva deriva verso un regime tutt’altro che liberale. La magistratura turca ha ordinato di riaprire Twitter, dopo che la sua censura aveva provocato uno scandalo internazionale. Ma passeranno settimane, prima che gli utenti turchi possano tornare a “twittare” liberamente. Su YouTube, il più grande canale online di condivisione di video, rischia invece di calare una cappa di buio, come nelle più rinomate dittature contemporanee.

Per arrivare a esaminare questi ultimi provvedimenti censori di Erdogan, meglio dare un’occhiata retrospettiva a come è nata e si è sviluppata questa crisi. Il governo dominato dall’Akp (islamico) di Erdogan è in sella dal 2002, sempre riconfermato a gran maggioranza dalle elezioni. Una prima grave crisi istituzionale si era verificata nel 2008, quando la magistratura iniziò a perseguire un primo gruppo di 86 presunti golpisti, fra cui alti ufficiali dell’esercito, facenti parte di un’organizzazione clandestina chiamata Ergenekon, della cui esistenza reale non vi è ancora alcuna certezza. Visti i precedenti di golpe contro partiti islamici (1960, 1971, 1980, 1997), il caso Ergenekon suonò molto familiare alle orecchie dei turchi. Tuttavia la purga nell’esercito e nelle personalità politiche laiche opposte a Erdogan fu così estesa (in tutto furono 531 gli imputati in tre anni di maxi-processo) da far pensare a un golpe preventivo, voluto dal governo islamico per liberarsi la via da ogni possibile ostacolo. Lo sosteneva il giornalista Ahmet Sik, finito pure lui nel tritacarne della giustizia turca, il cui libro, “L’esercito dell’imam” è stato vietato in Turchia. «La verità è che questo è un processo per condannare gli oppositori dell’AKP – diceva Sik all’indomani della pubblicazione delle sentenze del maxi processo - e coloro che avversano la ‘santa alleanza’ con la Comunità Gülen (comunità radicale islamica, guidata da Fethullah Gülen, ndr). Guarda caso tutti coloro che si sono opposti o che hanno fatto inchieste su questa alleanza strategica sono stati investigati e condannati a vari livelli. Il processo “Ergenekon” non è un processo equilibrato ma un processo basato sulla vendetta. Anche coloro che lo hanno difeso poi nel tempo si sono dovuti arrendere di fronte a questa verità».

Contemporaneamente all’inizio del caso Ergenekon, anche gli avversari dell’Akp lanciavano il loro attacco, sempre attraverso la magistratura. Nel 2008, il partito rischiò di essere chiuso con sentenza della Corte Costituzionale. Se la cavò con un solo voto a favore, ma perse i finanziamenti pubblici.

In questo contesto molto difficile e con le ferite del maxi-processo ancora aperte, una decisione apparentemente solo amministrativa e secondaria, l’inaugurazione dei lavori di una nuova moschea e centro commerciale nel parco di Gezi, a Istanbul, ha scatenato una vera rivolta di piazza nel giugno del 2013. Quella fu l’occasione per tutte le vecchie e nuove opposizioni per darsi appuntamento contro un governo che, già l’anno scorso, era visto come insopportabilmente autoritario, a causa dell’arresto di numerosi giornalisti, delle censure e di una islamizzazione progressiva e strisciante di una società abituata a standard più liberali. La rivolta di Istanbul era erroneamente paragonata alle manifestazioni degli “indignados” o a “Occupy Wall Street”. Ma più che a rivendicazioni economiche, i manifestanti si preoccupavano di difendere lo Stato secolare turco. In quella sollevazione di giugno ci fu anche un giovane morto innocente. Un ragazzino quindicenne, Berkin Elvan, colpito per sbaglio dalla polizia mentre si recava a comprare il pane. Finito in coma, è morto due settimane fa, sollevando una nuova ondata di proteste per le vie di Istanbul. Dimostrando molto poca sensibilità, Erdogan, ha definito il ragazzino come un elemento sovversivo, “legato ad ambienti terroristici”, per altro senza mostrare alcuna prova in merito. Quelle dichiarazioni hanno sollevato un’altra ondata di indignazione, che si è riversata soprattutto sui social network. E a questo punto, sul Web, è iniziato l’altro attacco al governo islamico. Quello che ha causato la crisi attuale.

Alla fine del 2013, infatti, un’inchiesta della magistratura aveva portato all’arresto, per tangenti legate a un ambizioso piano edile, dei figli di ben tre ministri, quello dell’Ambiente, Erdogan Bayraktar, dell’Economia, Zafer Caglayan e dell’Interno, Muammer Guler. Tutti e tre i ministri rassegnarono le dimissioni nel dicembre del 2013. Ma prima di sparire dalla scena, il ministro dell’Ambiente, in un’intervista alla televisione Ntv, dichiarò che lo stesso Recep Tayyip Erdogan fosse perfettamente al corrente di quelle tangenti. I figli incriminati dei ministri vennero rilasciati, ma lo scandalo proseguì, con un’altra purga nella polizia. La cosa non si è fermata nelle aule di tribunale, ma ha riempito di nuovo le piazze della protesta. I manifestanti, questa volta, non ce l’hanno solo con un governo islamico in quanto islamico, ma con un governo colpevole di corruzione che aveva tradito la sua vantata onestà.

Secondo osservatori turchi, lo scandalo partirebbe da denunce partite proprio da quella Comunità Gülen, protetta dal processo Ergenekon e da sempre alleata dell’Akp. Contrariamente ai laici che ritengono il governo Erdogan troppo islamico, l’imam Gülen, in esilio volontario negli Stati Uniti dal 1999, ritiene che l’Akp sia già troppo secolare e che non applichi la legge islamica al Paese. Da qui, secondo i difensori di Erdogan, sarebbe partito il ricatto. Prima con l’arresto dei figli dei tre ministri, poi con una campagna di fango, condotta sui social network, contro lo stesso premier islamico. Su Twitter, a provocare la reazione iraconda del governo e l’imposizione della censura, era stata la comparsa di un file audio in cui un presunto Erdogan telefona a suo figlio per avvertirlo di nascondere i soldi delle tangenti. Non è affatto detto che si tratti di una telefonata vera. E non è neppure detto che sia un complotto di Gülen, perché gli utenti internet turchi sono sempre più numerosi e qualunque imitatore potrebbe aver confezionato un finto audio di un’intercettazione. Un secondo video, comparso su Facebook e su YouTube, avrebbe smascherato una riunione segreta dei vertici della Difesa turca, in cui si discutevano operazioni militari coperte nel vicino conflitto civile siriano. Erdogan, a questo punto, ha perso la pazienza, ha reagito di impulso, ha iniziato a censurare i social network nel loro complesso.

Agendo in modo così brutale, tuttavia, il premier islamico ha ottenuto l’opposto di quel che desiderava. Ora ha mostrato il suo volto peggiore: quello di un dittatore vero. Non è riuscito a silenziare le critiche: lo stesso Twitter ha inviato ai turchi gli indirizzi per aggirare il blocco (i ragazzi hanno iniziato anche a scriverlo sui muri). E agendo in modo così plateale, fa, come minimo, sorgere il sospetto, che le prove esposte sui social network siano reali e non delle macchinazioni contro di lui. La voce, in ogni modo, passerà domani agli elettori, nelle elezioni amministrative. L’Akp è ancora dato in netto vantaggio in tutti i sondaggi, ma la luna di miele fra Erdogan e i turchi è comunque finita.