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LA LETTERA

Tre ragioni per dire no al referendum sulle trivelle

Nel referendum sulle trivelle, in ballo non c’è affatto il problema della proroga delle concessioni petrolifere offshore e la scelta – credo io – dovrà avvenire in riferimento a tre ordini di fattori: quello ambientale, quello economico, e quello istituzionale. Ecco le ragioni del mio no.

Politica 03_04_2016
Trivella in Adriatico

Caro direttore

i quesiti referendari sono in genere paradigmi di oscurità, validi non a produrre chiare decisioni su norme chiare, ma piuttosto a fornire un orientamento che per il futuro governi, Parlamento e opinione pubblica dovranno seguire («Eh, ma c’è stato il referendum!»). Chi non fosse convinto della veridicità di questa affermazione, può rileggere i testi dei referendum più citati ed efficaci, che condizionano il dibattito politico: da quelli sul nucleare a quello sui servizi pubblici, per i quali l’efficacia non è quella della decisione formalmente assunta, ma quella derivante dalle suggestioni delle quali la si circonda. 

Si tratta, è evidente, di una delle tante distorsioni e forzature vigenti nel nostro povero Paese, che da “Patria del diritto” si è ridotto a “Spelonca di illegalità”: un contesto nel quale le norme formalmente definite come tali spesso non si applicano, mentre diventano assolutamente obbligatori comportamenti non previsti da alcun atto normativo. Scusatemi di questa noiosa premessa, che però è utile ad aprire un discorso sul referendum “sulle trivelle”, di prossima effettuazione.

Come è chiaro a tutti, in ballo non c’è affatto il problema della proroga delle concessioni petrolifere offshore: l’esito del voto avrà influenze soprattutto in campo istituzionale e politico, e la scelta – credo io – dovrà avvenire in riferimento a tre ordini di fattori: quello ambientale, quello economico, e quello istituzionale. L’impatto politico costituisce la conclusione del ragionamento. Dal punto di vista ambientale (e paesaggistico) non hanno pregio alcuno gli argomenti presentati dai promotori per cancellare la norma: il nostro ordinamento è in materia giustamente rigido, e le continue indagini ed analisi non hanno mai evidenziato problemi. È pur vero che Greenpeace ha espresso violente accuse in argomento, ma l’ha fatto su dati altrui (dell’Ispra) forse non compresi, equivocando sul loro significato. Se per ignoranza o per malafede non so, ma il risultato non cambia: come al solito le grandi associazioni paleoambientaliste usano menzogne per sostenere conclusioni false e cervellotiche. Certo non voterò si per motivi ambientali. 

Passiamo agli aspetti economici. Va bene che gli idrocarburi di produzione nazionale non sono molti, ma soddisfano pur sempre una percentuale non infima dei consumi nazionali, dando luogo a oltre centomila posti di lavoro; e che la produzione potrebbe essere aumentata se non fossero gli stessi produttori a tenerla bassa, per sfruttare al meglio la quota di estratto per la quale è prevista l’esenzione dal pagamento di royalties e prorogare così la concessione dei pozzi.Credo valga la pena a questo punto di aprire una parentesi. 

Dai concessionari petroliferi, in particolare dall’Eni, ha avuto origine negli Anni ‘50 la corruzione politica nel nostro Paese; da loro dipende in gran parte, ancor oggi, lo stato di diffusa illegalità nel quale operano le strutture politiche e amministrative. Da questa situazione si esce, se è possibile, solo riportando a sedi politiche oneste la responsabilità delle decisioni: per esempio, obbligando i concessionari ad accelerare lo sfruttamento dei pozzi, e investendone i proventi in una promozione non dissennata, a lungo termine, della produzione di energie rinnovabili. Ai fini del voto, le considerazioni di ordine economico vedono in pareggio il si (per la gestione strumentale delle concessioni fin qui avvenuta) e il no (per il valore aggiunto al Sistema Italia che ne deriva).

Il terzo ordine di ragionamenti da fare è quello relativo agli aspetti istituzionali. Per lungo tempo, dagli sciagurati provvedimenti cosiddetti “Bassanini” dal nome di colui che li aveva disegnati, la politica energetica è stata condivisa tra Stato e Regioni, alle quali erano assegnate forti competenze in materia di autorizzazioni e concessioni; con la modifica del Titolo V° e con la norma oggetto di referendum si procede all’opportuna, notevole, compressione di tali poteri. Da qui la reazione fortissima e inusitata dei Presidenti, a tutela del loro delirio di onnipotenza revocato in dubbio e della possibilità di gestire il flusso di denaro e di potere che dalle concessioni deriva. 

Ho sempre ritenuto che – come era nel disegno dei costituenti – alle Regioni andassero riconosciute esclusivamente funzioni legislative e programmatorie; la cupidigia di una classe politica ingorda e ignorante le ha portate viceversa ad essere grossi enti di gestione delle iniziative e delle attività più disparate; ogni singola, anche irrilevante, competenza, viene difesa con rabbia. In difesa di una corretta organizzazione istituzionale, la partita, per quanto mi riguarda, si chiude con una forte spinta a votare no.

Riepilogando: per l’ambiente, il voto sarebbe no; per l’economia, più no che si; per gli aspetti istituzionali, no netto. La somma, direte, fa no: certo non voterò si, ma la (scarsa) qualità dei soggetti in campo mi fa dubitare anche di votare quel no al quale, certamente, mi sento più vicino e che scaturisce dall’attento esame della situazione. Ricordo anche che è possibile non votare. Che farò? Arriverò certamente a una soluzione, e se vi interessa ve la comunicherò.