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ASIA

Stato Islamico all'offensiva nelle Filippine

Lo Stato Islamico arretra nel suo territorio centrale, in Siria e Iraq, ma si espande nelle periferie. Cogliendo di sorpresa un po' tutti, ha lanciato un'offensiva nell'isola di Mindanao, la più meridionale dell'arcipelago delle Filippine, dove già da un ventennio il radicalismo islamico sta attecchendo.

Esteri 29_05_2017
Filippine. In rosso: Mindanao

Una parte della nostra storia di oggi è iniziata un fatidico 29 giugno del 2014 quando un personaggio di seconda fila, Ibrahim Awed Ibrahim Alì al-Badr, si è presentato con l’altisonante nome di Abu Bakr al-Baghdadi e ha proclamato lo Stato Islamico con capitale a Raqqa. 

Già il nome è un vero manifesto: Abu Bakr era stato il primo successore di Muhammad nel 632, ed il primo a darsi il titolo di Califfo, così il comandante Ibrahim fondando lo Stato Islamico, poi Stato islamico della Siria e dell’Iraq, ed oggi di nuovo IS, ha chiaramente indicato l’intenzione di tornare ai tempi d’oro dell’espansione islamica, come vuole il più autentico salafismo-jihadista.  

Com’è noto, alcuni analisti (tra cui Elisha Fieldstadt, Isis Declare Themselves an Islamic State, NBC News) hanno osservato che eliminare il riferimento geografico dal nome ha ampliato il raggio d'azione del gruppo e Laith Alkauori, un analista del terrorismo, ha spiegato che la prima fase dell’azione militare, con l’occupazione di vaste aree della Siria e dell’Iraq, indicava la volontà di prendere il controllo del jihadismo globale sottraendolo ad al-Qaida.

L’intenzione di al-Baghdadi era il ritorno all’età d’oro di Muhammad a Medina, con un vero e proprio Califfato, governato dalla shari’a, senza infedeli e senza commistioni con l’Occidente. Lo stato islamico avrebbe poi dovuto ampliarsi dal Medio Oriente alla Spagna, una volta terra musulmana, fino a Roma e, poi… non si possono porre limiti al volere di Allah. 

La sua prospettiva non era solo minare la fiducia che l’Occidente ha in se stesso, danneggiarne l’economia, dimostrare la forza dell’islam (tutte prerogative di al-Qaida) ma creare un “paradiso in terra”, un luogo in cui il rispetto delle norme coraniche fosse assoluto e quindi dove il fedele potesse vivere in assoluta sintonia con la sua coscienza e da qui l’appello a lasciare le terre dei miscredenti per andare a vivere e combattere in Medio Oriente.

Oggi il territorio si va inesorabilmente erodendo per l’avanzata delle truppe siriano-russe da un lato e americane dall’altro, e quindi torna la prospettiva di variare le coordinate geografiche nella convinzione che il tempo attuale sia la “fine dei tempi”. Infatti nella visione apocalittica che caratterizza parte del pensiero del Califfo, presto avremo lo scontro finale tra l’islam e il mondo. I cristiani – il termine accomuna tutti gli Europei e gli Americani, senza fare distinzioni fra credenti e laicisti – dovranno invadere la terra siriana perché questo è il piano di Allah prima della loro sconfitta finale. Sconfitta che farà loro comprendere la superiorità dell’islam  con un chiaro richiamo alle tesi del teologo e terrorista egiziano al-Faraj (1954-1982).

Ma se il Califfato dev’essere unico non per questo le sue province devono essere contigue: così l’IS considera parte integrante del Califfato le zone della Libia e della Nigeria, sotto il controllo di suoi alleati, ed oggi si volge anche all’Estremo Oriente per trovare una possibile nuova base da cui ripartire alla conquista del mondo. 

Perché Estremo Oriente? Perché oggi l’islam non è arabo o africano ma asiatico sud orientale: ci sono più musulmani nella sola Indonesia di quanti ce ne siano in Medio Oriente o nel Maghreb.

Con grande stupore pochissima eco ha avuto giorni fa un evento molto significativo: l’attacco a Marawi, città dell’Isola di Mindanao nelle Filippine, da parte di un gruppo militare aggregato all’ISIS che ha generato uno stato di guerra in piena regola.

I fondamentalisti islamici, dopo aver occupato e saccheggiato alcuni quartieri, hanno assaltato la Cattedrale prendendo in ostaggio il Vicario, Padre Teresio Soganub, e circa 15 fedeli, per i quali si pensa vogliano chiedere un riscatto o dei quali vogliono servirsi come scudi in caso di rappresaglia delle forze di sicurezza filippine.  Mons. Edwin de la Pena, Vescovo di Marawi, ha lanciato ieri un accorato appello tramite un’intervista al sito Vatican Insider: “Papa Francesco, prega per noi …resta con noi mentre portiamo la nostra croce”. E’ stato assaltato anche il comando della polizia e il comandante è stato decapitato nella strada antistante. Decine i morti.

L’ISIS vuole conquistare le Filippine? Poco credibile, ha il 90% di cristiani, ma ci sono anche significative presenze islamiche (i Moros poco più del 5%, in maggioranza sunniti) disseminate in diverse isole e isolette del vasto arcipelago in perenne lotta con lo Stato per due diverse componenti: un tradizionale conflitto di stampo irredentista (MNLF, MILF) e, negli ultimi decenni, una componente strettamente jihadista (Abu Sayyaf, Maute,) legata in parte prima ad al-Qaeda e recentemente all’ISIS. 

Con un copione che sembra ripetere quello della Nigeria e che rischia di replicarsi anche in altri paesi come la Birmania, su fenomeni ad origine locale intervengono finanziamenti, aiuti, consiglieri “stranieri”, esponenti cioè del radicalismo ultra-fondamentalista provenienti dal Medio Oriente e Nord Africa. La competizione per accaparrarsi questi finanziamenti spinge i gruppi locali a guadagnarsi sul campo il riconoscimento con attentati, massacri, imposizioni violente di norme shariatiche, di cui fa le spese la popolazione civile, soprattutto cristiana.

Il Presidente Rodrigo Duterte, eletto un anno fa, dopo una campagna elettorale in aperta polemica con la Chiesa Cattolica filippina sui temi morali, aveva promesso di eliminare il problema del terrorismo islamico imponendo, se necessario, la legge marziale, cosa che ha regolarmente fatto per l’isola di Mindanao la scorsa settimana.

Le componenti ribelli operano all’interno di varie comunità sparse nelle centinaia di isole, alcune delle quali praticamente impossibili da controllare e, quindi, santuari ideali di organizzazioni terroristiche. Queste isole, proprio perché fuori controllo, sono il luogo nel quale l’Indonesia, paese islamico che non tollera fondamentalisti sul suo territorio, scarica regolarmente le “teste calde” che cattura nei suoi confini. 

L’insorgenza autonomista dei moros ha una lunga storia che comincia con le rivolte anti-spagnole del XVII secolo, prosegue con l’opposizione armata all’occupazione americana fino alla II Guerra Mondiale e sfocia nella guerriglia contro lo stato filippino dopo l’indipendenza nel 1946. Nel 1970 le varie fazioni in rivolta si uniscono nell’MNLF (Moro National Liberation Front), disponibile a trattative diplomatiche, da cui nel 1980 si stacca il MILF (Moro Islamic Liberation Front), che invece vuole uno stato autonomo ispirato alla shari‘a. Nel 1996 il MNLF firma un accordo con il governo ottenendo una regione a “statuto speciale” in cambio della pace.

A partire dalla metà degli anni ’90 la lotta indipendentista armata passa al MILF che arriverà ad avere un “esercito” fra i 35.000 ei 45.000 combattenti sparsi per le sette province filippine a maggioranza musulmana. Nel 2001 anche il MILF raggiunge un accordo per un cessate-il-fuoco con il governo dell’allora Presidente Joseph Estrada. 

La componente esplicitamente jihadista emerge nel 1990-91 quando Abubakar (Abdurajak) Janjalani, dopo aver studiato in Arabia Saudita e in Libia, ed essersi addestrato in Afghanistan, fonda un gruppo destinato a diventare tristemente noto: Abu Sayyaf. 

Abu Sayyaf raccoglie i dissidenti più estremisti dell’MNLF che rifiutano la strategia dei colloqui con il governo e si avvale della struttura logistica di organizzazioni criminali e piratesche che controllano i traffici nel Mare di Sulu.  Osama bin Laden manda numerosi combattenti esperti, tra i quali il cognato Muhammad Jamal Khalifa e Ramzi Yusef – l’ideatore del primo attentato alle Torri Gemelle del 1993 -  per addestrare i dissidenti al terrorismo. Nel dicembre 1998 Abubakar Janjalani viene ucciso e alla guida del gruppo gli succede il fratello ventitreenne, Khadaffy Janjalani, a sua volta morto nel 2006. A partire dal 2014 un numero significativo di comandanti di Abu Sayyaf hanno reso noto il loro giuramento di fedeltà all’ISIS. Nel giugno del 2016 Dabiq, la rivista “ufficiale” dell’autoproclamato califfato, ha rivendicato numerose azioni condotte dai “soldati del Califfato nelle Filippine” (Dabiq, Issue 15, 1437 Shawwal, p. 40) tanto che alcuni hanno pensato a qualche isoletta del Mare di Sulu come rifugio possibile per il Califfo dopo la sconfitta definitiva in Siria. Negli stessi giorni fonti autorevoli hanno indicato Isnilon Hapilon (Abu Abdullah al-Filipini), considerato l’attuale leader di Abu Sayyaf, come “emiro” del califfato e autorizzato a guidare i “soldati dello Stato Islamico nelle Filippine”. 

Abu Sayyaf non è l’unico gruppo jihadista operante nelle Filippine. La vicinanza geografica favorisce l’attività nell’arcipelago filippino di Jamaat Islamiyah, gruppo jihadista indonesiano. Attorno ai due movimenti principali è nata una galassia di piccoli gruppi locali composti da transfughi locali, rinforzati da militanti stranieri che fuggono dalla Siraq o che, non potendo raggiungere le terre del “califfato”, ripiegano su jihad “periferiche”. 

L’IS tuttavia sta mantenendo contatti molto stretti anche con altri gruppi locali per evitare i rischi del referente unico. Recenti quelli con MAUTE (Khalifa Islamiyya Mindanao, o Dawla Islamiyya), fondata nel 2012 dai due fratelli Maute, Abdullah e Omarkhayam Romato (Omar), con un passato più criminale che jihadista. 

La scena lascia molti punti ancora al buio ma forse è bene che la politica internazionale presti attenzione a quanto sta succedendo per evitare di svegliarsi un mattino con un nuovo Stato Islamico contro cui, con grave ritardo, iniziare una nuova guerra come già capitato in Medio Oriente.