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ISTITUZIONI

Si scrive riforma del Senato. Si legge: centralismo

Renzi vuol varare una riforma costituzionale senza passare da una Costituente, affidandosi al solo Parlamento e alla sua temporanea maggioranza. Per far cosa? Sopprimere il Senato e togliere, con esso, ogni potere alle Regioni.

Politica 18_07_2014
Palazzo Madama

E’ vero che la nostra Costituzione ha bisogno di manutenzione straordinaria, ma l’esperienza non smette di dimostrare che per questo occorrerebbe un’Assemblea Costituente composta di membri eletti una tantum, e non il Parlamento. Se messe nelle mani del Parlamento le riforme costituzionali vengono inevitabilmente piegate a prospettive di breve se non di brevissimo periodo, mentre una Costituzione ha senso se stabilisce un quadro di regole in grado di durare a lungo termine, e comunque al di là della contingenza in cui sono state poste in essere.

Se mai ce ne fosse stato bisogno, un’ulteriore conferma di questa (ovvia) verità viene dallo sconsolante sviluppo dell’attuale confronto sulle riforme costituzionali proposte dal governo Renzi. Centralista sia per collocazione politica che per carattere personale, Renzi vede nel centralizzazione del potere nelle sue mani la chiave di volta del rinnovamento delle istituzioni e dello Stato. Si può, come ad esempio siamo noi, essere nient’affatto d’accordo con una tale prospettiva, ma gli si deve riconoscere il merito della chiarezza. Basti dire che, come tutti ricorderanno, inaugurò il suo governo con un discorso al Senato nel corso del quale non esitò ad annunciare ai senatori la sua esplicita e ferma volontà di abolire il Senato stesso. Nel medesimo spirito ha poi presentato una riforma del Titolo V della Costituzione che riporta a Roma tutti i poteri di governo riducendo le Regioni a delle grandi prefetture, e i comuni a degli organi esecutivi dell’amministrazione statale. Parlamentari di entrambi gli schieramenti hanno poi opposto a queste sue riforme una resistenza tale da impedirgli di vederle attuate nei tempi rapidi che si era prefissato. La vicenda è quindi ancora in corso, e non si sa ancora come andrà a finire. Al di là di questo, tuttavia, ci si deve domandare che senso abbia fare delle riforme costituzionali una partita pro o contro il governo Renzi.

Restiamo al caso del Senato, di cui Renzi vorrebbe liberarsi. Una cosa è schierarsi contro il nostro “bicameralismo perfetto”, che senza dubbio non ha più senso e forse (al di là delle speranze dei costituenti) non l’ha mai avuto, e un’altra è invece puntare a un sistema monocamerale, che non a caso è molto raro, e di solito si ritrova solo in alcuni e piccoli Paesi. Persino nella massima parte degli Stati membri degli Usa, che per quattro quinti sono mediamente meno popolosi del Piemonte o della Puglia, ci sono parlamenti bicamerali. In tutti i più consolidati e più importanti Paesi democratici ci sono due Camere, entrambe democraticamente elette. Si tratta di un sistema di garanzia democratica molto utile, e che può funzionare benissimo, purché la distinzione delle loro rispettive competenze sia chiara. E’ esemplare il caso della Germania dove la Camera Bassa (Bundestag) ha in esclusiva il potere legislativo, mentre la Camera Alta (Bundesrat) non legifera, ma  ha un potere generale di revisione. Il rischio del conflitto di competenze è eliminato alla radice. Nelle riforme all’esame del Parlamento italiano, invece, pur nel quadro di un semi-annichilimento del Senato e delle autonomie, siamo ancora allo spezzatino delle competenze fra Camera e nuovo Senato, fra Stato e Regioni, brodo di coltura di un putiferio di ricorsi alla Corte Costituzionale; con in più il potere dello Stato di riaccentrare  su di sé quando vuole qualsiasi competenza togliendola alle Regioni. Renzi può credere di riuscire a guizzare in questo prestabilito guazzabuglio (ma a nostro avviso si illude), ma di certo non è così che si costruisce il sistema di competenze e di responsabilità chiare  senza il quale nessun grande processo di riforme può svilupparsi.