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EUROPA

Sì, il terrorismo ha cambiato il nostro stile di vita

Di nuovo tutta l’Europa è rimasta col naso incollato ai canali all news, sabato. Un nuovo attentato, così si diceva, stavolta a Münster. Ci aspettava il solito discorso delle autorità: "Non cambieranno il nostro stile di vita". Invece non era un attentato: era un folle che, come tanti, aveva cambiato stile di vita a causa del terrorismo.

Editoriali 09_04_2018
Munster, dopo il suicidio-omicidio

Di nuovo tutta l’Europa è rimasta col naso incollato ai canali all news, sabato. Un nuovo attentato, così si diceva, stavolta a Münster, tranquilla cittadina della Renania, non lontano dal confine olandese, 3 morti e 30 feriti. Le modalità erano le stesse dell’attacco di Anis Amri al mercatino di Natale di Berlino: furgone lanciato sulla folla. Una tecnica di attacco sperimentata per la prima volta da Hamas e dallo Stato Islamico in Israele, poi adottata dall’Isis per terrorizzare l’Europa, con mezzi semplici e jihadisti non addestrati. Quindi ci attendevano le dichiarazioni di rito del mondo politico prima tedesco e poi occidentale in senso lato, fra cui la formula più abusata di tutte: “Non cambieranno il nostro stile di vita”. Ma la notizia che è emersa successivamente, poche ore dopo l’attacco, è stata proprio la dimostrazione che il nostro stile di vita è già cambiato: lo stragista non era un jihadista, ma un tedesco con problemi psichiatrici gravi, già in cura da due anni, che ha deciso di togliersi la vita “alla jihadista”, emulando i terroristi, trovando così un modo per passare alla storia.

L’indagine su quanto accaduto a Münster sta seguendo il suo corso, non è detto che la pista jihadista espulsa dalla porta non rientri dalla finestra. Non è da escludere, insomma, che emergano successivamente indizi su contatti del suicida-omicida con la rete del jihad. Ma se anche dovesse essere confermata (come sembra) la tesi più probabile, quella del gesto folle di un suicida, completamente slegato da ogni trama terroristica, la notizia sarebbe gravissima. Non solo è la conferma che i jihadisti hanno fatto scuola e ora possono vantare innumerevoli imitatori. E’ anche la tragica prova di quanto il terrorismo islamico è entrato profondamente nella nostra psiche.

I casi di imitazione della “jihad delle auto” sono già numerosi. Lo scorso dicembre un italiano in stato di ebrezza si è lanciato con la sua utilitaria sui mercatini natalizi di Sondrio, fortunatamente senza provocare morti, ma tanti feriti e molta paura come a Münster in questi giorni. Nell’agosto scorso, un estremista di destra americano, a Charlottesville, si era lanciato con la sua auto su un corteo anti-razzista. In questo caso non si era trattato del gesto di una persona non in grado di intendere e di volere, ma di un atto deliberato. L’effetto imitazione, anche se più difficile da realizzare, si era visto persino dopo l’11 settembre. L’esempio più eclatante è il suicidio stragista di Andreas Lubitz, anch’egli tedesco: barricatosi nella sua cabina di pilotaggio, ha deliberatamente fatto schiantare sulle Alpi francesi il volo della Germanwings che stava pilotando, con 149 persone a bordo.

Queste sono tutte dimostrazioni di come le menti più fragili si siano fatte contagiare dalle tecniche stragiste della jihad internazionale. Ma anche coloro che sono perfettamente sani hanno dovuto cambiare stile di vita quotidiana. Passeggiare in una città europea, oggi, vuol dire aggirare numerosi blocchi stradali. Sono lì per impedire attentati come quelli di Nizza e Berlino. Entrare in una chiesa valutata come “obiettivo sensibile”, come il Duomo di Milano o la basilica di San Petronio a Bologna, vuol dire mettersi in coda e attendere che soldati di guardia controllino borse e perquisiscano giacche di tutti i visitatori e i fedeli, uno per uno. Gli eventi pubblici, come una partita di calcio o un concerto, sono molto più militarizzati. Passeggiare per una città che ospita un evento internazionale, un summit o un congresso che ospita capi di Stato, è come entrare in zone di guerra, ormai. Taormina, in occasione del G7, era una fortezza inavvicinabile. A Milano, in occasione del vertice Asem, nel 2014, il centro era impercorribile per auto normali. Bruxelles, subito dopo la strage di Parigi del 2015, pareva una città sotto assedio, con militari all’ingresso di ogni luogo pubblico e posti di blocco nelle vie principali. Nonostante tutto, l’attentato all’aeroporto di Bruxelles è andato ugualmente a segno, provocando un ulteriore inasprimento delle misure di sicurezza. Passare i controlli di sicurezza all’aeroporto, togliersi le scarpe, estrarre pc e tablet dalla valigia, separare i liquidi dal resto del bagaglio, sono tutte consuetudini a cui ci stiamo lentamente abituando. Farsi controllare anche all’ingresso di una stazione ferroviaria, sta diventando la norma, specie nelle grandi città.

Per ognuna di queste libertà a cui stiamo rinunciando, ci sono nuove leggi che dovrebbero spingere al “dialogo” con le comunità musulmane. Specie nei paesi nord europei stanno entrando nel dibattito: le corti islamiche, le scuole coraniche, le moschee e gli spazi di preghiera, il velo integrale, l’esposizione dei simboli religiosi, la limitazione della libertà di espressione giustificata dalla volontà di “non offendere” la sensibilità religiosa musulmana. Questi temi erano quasi del tutto assenti dal dibattito pubblico prima del 2001. La tendenza è ora quella di tollerare, quando non riconoscere ufficialmente, spazi sempre più ampi di una legislazione parallela, basata sulla sharia invece che sul codice civile. Una tendenza che in un paese a common law quale il Regno Unito ha già portato al riconoscimento di corti islamiche per giudicare casi di famiglia e di eredità fra musulmani.

In parole povere: hanno cambiato il nostro stile di vita. Da questo punto di vista, almeno, i terroristi islamici hanno già vinto.