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EMERGENZA GIUSTIZIA

Se la magistratura "chiude" il Paese

Nell’arco di pochi mesi, procure della Repubblica di ogni parte del Paese hanno preso di mira aziende, banche, politici e apparati dello Stato. Mettendo in crisi le aziende e facendo fuggire gli investitori. Potremo sopravvivere a una "giustizia" del genere?

Cronaca 16_02_2013
Giustizia

Mentre diviene sempre più chiaro che la Fiat, finora il primo gruppo industriale del nostro Paese, si avvia a diventare niente più che la filiale europea della Chrysler, la magistratura è partita lancia in resta contro il secondo gruppo industriale italiano, Finmeccanica, 68.321 dipendenti al 30 settembre 2012 e ricavi per 17,5 miliardi di euro nel 2011. L’accusa è di corruzione internazionale nel quadro della fornitura all’India di 12 elicotteri (dei quali solo 3 già consegnati) e servizi connessi per un valore complessivo di 750 milioni di dollari. L’India ha perciò deciso di sospendere i pagamenti nonché l’acquisto dei restanti 9 elicotteri.

Nell’arco di pochi mesi, e con un impetuoso crescendo in queste settimane di campagna elettorale, procure della Repubblica di ogni parte del Paese, da Busto Arsizio (Varese) e Taranto, hanno preso di mira aziende e banche (Eni, Saipem, Monte Paschi, e appunto Finmeccanica) la cui capitalizzazione di borsa complessiva ammonta a oltre 140 miliardi di euro. A queste si aggiunge l’Ilva, primo centro siderurgico in Italia e quarto in Europa, appartenente al gruppo Riva, che nel 2011 aveva fatturato oltre 10 miliardi di euro.

Senza entrare nel merito delle accuse, per valutare le quali non abbiamo gli elementi, possiamo però comunque affermare con certezza che, per il modo con cui vengono comunicate e con cui vengono sviluppate, queste iniziative giudiziarie gettano un discredito irrimediabile non solo sulle persone accusate ma anche sulle aziende coinvolte in quanto tali; ne provocano la crisi se non il fallimento; ne fanno le facili prede a pezzi e bocconi degli appetiti dei loro concorrenti non solo italiani ma innanzitutto stranieri. Si aggiunga poi che nel loro insieme costituiscono una gigantesca campagna planetaria di dissuasione dagli investimenti in Italia. Quale investitore straniero interessato al mercato dell’Unione Europea sarà mai così matto da venire a fare un investimento industriale in Italia, invece che in qualche altro stato dell’Ue, avendo appreso che, come è accaduto a Taranto, nel nostro Paese prima del processo e dell’eventuale condanna un singolo magistrato inquirente può a semplice titolo cautelare ordinare la chiusura di un grande stabilimento? E può anche classificare come corpi del reato i suoi prodotti pronti per la consegna e quindi metterli sotto sequestro?

A tutto ciò si può pure sommare il pluridecennale assedio che la procura della Repubblica di Milano stringe attorno a Silvio Berlusconi e ad altri leader del centro-destra con ben pochi risultati pratici all’interno ma con grande eco all’estero. Un’eco che si risolve nella delegittimazione di una grande forza politica che è tale grazie a un ampio consenso popolare; e quindi in un conseguente discredito della capacità democratica del popolo italiano.
Un altro episodio da mettere sullo stesso conto è infine la recente condanna di Nicolò Pollari per la partecipazione del servizio segreto da lui diretto all’epoca del fatto nel sequestro organizzato nel 2003 a Milano dalla Cia di un imam sospettato di terrorismo.

Pollari - che non si è potuto adeguatamente difendere dalle accuse poiché tutti i governi italiani in carica da allora ad oggi, compreso quello attuale presieduto da Mario Monti, hanno opposto al riguardo il segreto di Stato – è stato condannato in primo grado a dieci anni di carcere. E questo è già grave. Non meno grave però è un altro elemento sin qui poco considerato: da adesso in avanti i servizi segreti dei Paesi a noi alleati cercheranno di collaborare con i nostri il meno possibile anche in caso di operazioni sul nostro territorio. Magari si era così voluta rivendicare la nostra sovranità, ma l’effetto sarà esattamente il contrario.

Da qualche anno a questa parte si parla a ragione nel nostro Paese di “emergenza educazione”. Altrettanto a ragione si dovrebbe però ormai anche parlare di “emergenza giustizia”; e non solo come si vede per l’ormai insostenibile lentezza dei processi. Possono l’Italia, la sua società, la sua economia sopravvivere a una “giustizia” del genere? A questo punto non si può più esserne certi.