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Santa Giuseppina Bakhita

Rapita da bambina e fatta schiava, fu solo con l’arrivo in Italia che conobbe Gesù. Raccontando la sua storia, diceva: «Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa»

Santo del giorno 08_02_2020 English Español

Nell’enciclica Spe Salvi, Benedetto XVI richiama l’esempio di Giuseppina Bakhita per meditare sulla speranza, una virtù teologale che era entrata potentemente nella vita della santa sudanese grazie alla conoscenza del vero Dio. «Mediante la conoscenza di questa speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio», scrive Ratzinger. Quel Dio che lei, già ‘adottata’ dall’Italia, chiamava in dialetto veneto, con la confidenza dei santi, «el me Parón» («il mio Padrone»).

Di altri padroni, Bakhita ne aveva avuti tanti. Era nata verso il 1869 in un villaggio del Darfur, nel cuore dell’Africa, trascorrendo serenamente la prima infanzia in una famiglia numerosa. Intorno ai nove anni fu rapita da due mercanti di schiavi e, tra traversie varie, passò di padrone in padrone fino a quando venne acquistata da un generale turco, che si rivelò il più crudele di tutti. Un giorno subì perfino il rito del tatuaggio degli schiavi. Sul suo corpo vennero impressi più di cento tagli di rasoio: 6 sul petto, 48 sul braccio destro e una sessantina sul ventre, con le ferite cosparse di sale. «Come mi sentissi, non lo potrei dire. Mi pareva di morire ad ogni momento…», ricorderà in seguito, dettando - su insistenza delle consorelle - il suo diario.

L’acquistò poi un agente consolare italiano, Callisto Legnani, che «prese a volermi bene tanto». All’intensificarsi della Guerra Mahdista, il console decise di tornare in Italia e Bakhita, supplicandolo, riuscì a convincerlo a portarla con sé. Legnani la donò quindi alla moglie di un amico, Maria Turina Michieli, che cercava una bambinaia per la figlioletta. Due anni più tardi, era il 1888, alla partenza per affari della signora Michieli verso il Sudan, la giovane Bakhita e la bambina vennero affidate alle Suore Canossiane di Venezia, dove la futura santa poté iniziare il catecumenato. Fu così che Bakhita cominciò a essere pian piano istruita dalle suore su «quel Dio che fin da bambina sentivo in cuore senza sapere chi fosse» e che davanti alle meraviglie del Creato la spingeva a chiedersi tra sé: «Chi è mai il padrone di queste belle cose?».

Di ritorno dal Sudan, «circa nove mesi dopo, la signora Turina venne a reclamare i suoi diritti su di me. Io mi rifiutai di seguirla in Africa, perché non ancora ben istruita per il battesimo». Nonostante la mansuetudine d’animo e il bene che provava per la signora e la bambina, Bakhita fu risoluta a rimanere dalle suore. Dirà poi: «Era il Signore che mi infondeva tanta fermezza, perché voleva farmi tutta sua».

Il 9 gennaio 1890 ricevette il Battesimo, la Cresima e la Prima Comunione. Venne battezzata come Giuseppina Maria Margherita Bakhita, nome - quest’ultimo - che le era stato dato dai rapitori e che significa “Fortunata”. Sentendo la vocazione religiosa, tre anni più tardi iniziò il noviziato dalle Canossiane e l’8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò i voti. Le aveva detto il nuovo patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto (san Pio X): «Pronunciate i santi voti senza timori. Gesù vi vuole, Gesù vi ama. Voi amatelo e servitelo sempre così».

Nel 1902 fu trasferita nel convento canossiano di Schio, trascorrendovi, con qualche pausa, gli ultimi 45 anni della sua vita terrena. Vi lavorò come cuciniera, portinaia, ricamatrice e durante la prima guerra mondiale servì come aiuto infermiera nell’ospedale militare allestito dentro il convento. Sorridente, con voce calma, trasmetteva sempre con poche semplici parole la fiducia nel buon Dio, unita alla certezza di essere amata. Fu anche sagrestana, un servizio che le piaceva molto perché poteva stare più tempo a contemplare Gesù nel Tabernacolo. Gli abitanti di Schio e le fanciulle accolte nell’istituto delle Canossiane la chiamarono “Madre Moretta”. La sua storia divenne nota in tutta Italia. Nessun rancore per il passato, anzi. Diceva: «Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa». Questo stesso concetto, a chi la compativa, una volta lo spiegò così, nell’originale veneto: «Poareta mi? Mi no son poareta perché son del Parón e nela So Casa: quei che non xé del Parón i xé poareti» («Poveretta io? Io non sono poveretta perché sono del Signore e nella Sua Casa: quelli che non sono del Signore sono poveretti»).

Negli ultimi anni passò attraverso una dolorosa malattia, che unì alle sofferenze di Gesù crocifisso. Fu la Madre del Signore ad arrecarle conforto negli estremi istanti quaggiù, tanto che le sue parole finali, l’8 febbraio 1947, furono: «Quanto sono contenta… la Madonna! La Madonna!».


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