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L'INSEGNAMENTO

San Filippo Neri, quando la gioia cura la sciatteria

La Chiesa ha festeggiato ieri san Filippo Neri, detto "il santo della gioia". Operò per i bisognosi, avendo presente che la maggior opera di misericordia è avvicinare le anime a Cristo. A tal fine fondò gli Oratoriani ed evangelizzò servendosi della musica nella lingua del popolo (non nella Messa), ma non certo una musica di scarso valore, bensì composta da grandi musicisti. A conferma che la gioia cristiana nulla c'entra con la sciatteria.

Ecclesia 27_05_2019

Alcuni giorni fa, in un post su Facebook, un musicista chiedeva consiglio agli altri sull’affermazione del suo parroco che lo aveva invitato a eseguire nella Messa “canti allegri”. Questo può solo venire da una fondamentale incomprensione della gioia cristiana, che è gioia non superficiale ma che viene da dentro e quindi per questo riconcilia lo spirito con il corpo. Essa è austera, castigata, controllata.

La Chiesa ha festeggiato ieri san Filippo Neri (1515-1595), uno dei santi più popolari fra i cattolici. Filippo, fiorentino, si trasferì a Roma dove operò in favore dei poveri e dei bisognosi, dei pellegrini, sempre avendo presente che la maggior opera di misericordia che poteva compiere per loro era quella di aiutarli a essere più vicini a Cristo. Per fare questo si servì di una nuova congregazione da lui fondata, gli Oratoriani, e si servì dell’arte, della musica nella lingua del popolo (non nella Messa) come le Laudi da cui poi si sviluppò quella forma musicale conosciuta come Oratorio, dal nome del posto in cui veniva eseguita. Musica per il popolo, certo, ma non musica sciocca o di poco valore. A comporre Laudi e Oratori erano grandi musicisti del tempo, che avevano in Filippo un devoto padre spirituale. Molti di questi musicisti erano laici, in un tempo in cui la clericalizzazione della professione di musicista di Chiesa era ancora ben lontana. Laici, ma di grandi mezzi musicali e di profonda vita spirituale.

Da alcuni è definito “il santo della gioia”. Leggiamo in questo ricordo di Marco Antonio Maffa: “Voleva ancora che le persone stesser alegre dicendo che non gli piaceva che stessero pensose e malinconiche, perché faceva danno allo spirito, e per questo sempre esso beato Padre, ancora nelle se gravissime infermità, era di viso gioviale et allegrissimo, et che era più facile a guidare per la via dello spirito le persone alegre che le malinconiche“. Certo, tutti vorremmo poter esser sereni, allegri, contenti nelle cose della vita. Ma quando rendiamo gloria a Dio nella liturgia dobbiamo riflettere sul fatto che ci troviamo di fronte alla Maestà divina e manifestare questa gioia in termini spirituali, non al modo delle cose terrene. Sempre il Maffa ci informa: “Raccomandava a tutti la quiete della conscientia e per questo a un certo suo proposito disse una volta che quando la persona volesse fare qualche voto cercasse di farlo condizionato: se potrò, se mi si ricorderà, o in altro simil modo”. Insomma, un prete che conosceva i limiti dei suoi fedeli e cercava comunque di portarli in paradiso, malgrado le mancanze. 

L’ex procuratore generale degli Oratoriani, Edoardo Aldo Cerrato, ora vescovo di Ivrea, così affermava:

A questo metodo si ispirarono fin da subito i primi che Filippo Neri chiamò a coadiuvarlo nella tractatio Verbi Dei, poiché, come testimonia padre Pompeo Pateri, Filippo "volle che i suoi discepoli si abituassero allo stesso modo a annunciare la Parola di Dio, per ferire più i cuori degli ascoltatori che le orecchie".  In qualche caso li educò alla semplicità, alla sincerità e a un rapporto di intima confidenza con gli ascoltatori anche con espedienti curiosi: al padre Agostino Manni, anima poetica e di grande sensibilità artistica, incline a farsi prendere la mano dalla vena letteraria, fece ripetere, ad esempio, per sei volte lo stesso elaborato sermone, tanto che i fedeli pensarono che quel padre non sapesse dir altro; a padre Francesco Maria Tarugi, che in un sermone parlò, con enfasi eccessiva e impeto degno della miglior retorica, sull'utilità della sofferenza, padre Filippo, dopo essersi a lungo agitato sulla sedia per fargli comprendere di rientrare nei giusti confini, disse pubblicamente, al termine, che nessuno di loro aveva ancora versato una goccia di sangue per Gesù Cristo. Per l'attrattiva che esercitava e per i frutti di sincera conversione che produceva, lo stile della predicazione filippiana si diffuse presto anche al di fuori dell'ambiente oratoriano dando il via al rifiorire della predicazione frequente nelle chiese romane: i domenicani della Minerva furono i primi ad assumerlo, fin dal 1562, per iniziativa del loro priore Vincenzo Ercolani, grande amico di padre Filippo; gli scolopi stabilirono nelle loro costituzioni che si usasse la stessa familiare eloquenza "di cui si servono i RR. pp. dell'Oratorio alla Vallicella"; fuori Roma, san Carlo Borromeo lo prescrisse ai padri oblati di Milano e san Vincenzo de Paoli lo raccomandò ai suoi missionari. 

Dicevamo prima della liturgia. Romano Guardini aveva studiato “lo spirito della liturgia” e ben descritto come la gioia espressa in essa deve essere contenuta. Partendo da questo possiamo leggere un passaggio di uno scritto del cardinale Gerhard Ludwig Müller, un articolo dal titolo L’uomo di oggi può comprendere lo spirito della liturgia? Ecco alcuni paragrafi:

Si osserva una profonda discrepanza fra la liturgia ufficiale e la ricezione carente della sua istanza più profonda. Nei Paesi mitteleuropei la partecipazione alla celebrazione eucaristica della domenica si è ridotta drasticamente. Molti non sanno più che si tratta dell’incontro con Gesù Cristo, che ci ha offerto il dono dell’Eucaristia affinché possiamo giungere a Dio nella comunione con il Signore crocifisso e risorto, che è il senso e lo scopo della nostra vita. Anche molte forme di devozione sono andate perdute a tal punto che la liturgia non si basa più su una profonda vita di fede e non può dare frutti. La "mensa della Parola di Dio" (Sacrosanctum Concilium n. 51, Dei Verbum n. 21) non è mai stata per i fedeli tanto riccamente apparecchiata come oggi, ma la conoscenza della Bibbia, per non parlare di una viva familiarità con le Scritture, ha raggiunto anche nei circoli protestanti un livello terribilmente basso.

Certo, questo è accaduto perché si è confusa la gioia cristiana con la festa di tipo terreno. Prosegue il cardinale Müller:

A ragione ci si lamenta di una crescita liturgica selvaggia. Spesso l’arbitrio di una struttura liturgica cosiddetta spontanea, alterata e dal senso ridotto arriva a negare alcune verità di fede e questo a causa di una mancata comprensione dell’essenza della liturgia ecclesiale. Mancanze ed errori nella dottrina di Dio, nella cristologia e nell’ecclesiologia provocano la crisi e la sconfitta della liturgia, dal momento che non è più determinante la legge interiore, ma vengono applicati i criteri dell’intrattenimento. Invece la liturgia in senso cristiano non dovrebbe suscitare stati d’animo romantici, mettere in moto un’azione socio-politica né coinvolgere le persone in maniera pseudoreligiosa, ma rafforzare i fedeli. Lo scopo della liturgia non è farci sentire bene, suscitare in noi uno stato d’animo festoso che ci faccia dimenticare per un attimo il quotidiano. La liturgia deriva dalla fede nel Dio vivo e in suo Figlio Gesù Cristo, strumento di salvezza, che ci dona la vita eterna (Gv 17,3). La liturgia è la sintesi sacramentale della Chiesa, strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (Lumen Gentium n. 1).

Ecco ben identificata la radice del problema, la liturgia non è intrattenimento. E come aveva ben capito san Filippo Neri, se l’arte deve essere a servizio del culto, deve essere arte grande. Riprendendo Guardini, ecco ancora come riflette su questo Müller:

Anche se in molti luoghi si compiono sforzi seri per dare alla liturgia una forma sensata, non si può trascurare di certo il bisogno di responsabili che si occupino della trasmissione dei contenuti teologici e spirituali dei Sacramenti e in particolare della celebrazione eucaristica. Per comprendere la differenza fra la dinamica iniziale del movimento liturgico, soprattutto dopo la prima guerra mondiale con i suoi successi fino al Concilio e la crisi della liturgia della fine del XX secolo possono essere utili i due libri, dal titolo quasi identico, di Romano Guardini e del Cardinale Joseph Ratzinger. Mentre il libro di Guardini "Dello spirito della liturgia", che in occasione della Pasqua del 1918 inaugurò la celebre serie "Ecclesia orans" dell’Abate Ildefons Herwegen, descrive un meraviglioso clima iniziale, J. Ratzinger, che nella sua opera "Introduzione allo spirito della liturgia" fa espresso riferimento a Guardini, tenta di far comprendere l’essenza della liturgia nella sua profondità spirituale e nelle sue essenziali e concrete forme di espressione fino all’atto dell’inginocchiarsi, al congiungimento delle mani, alle forme di adorazione silenziosa, alla dimensione spirituale della comunione verbale e mentale. 

Insomma, si deve ritornare al senso autentico delle cose, come sicuramente vorrebbe san Filippo Neri, le cui chiese hanno sempre risuonato di grande musica e sono state sempre risplendenti di grande arte. La vera gioia cristiana non è sciatteria, mediocrità, banalità.