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MINISTRO TRENTA

Polemica sulla Difesa. Ingiusto umiliare le Forze Armate

Di fronte ad accuse di strage e omicidi di massa, citati a sproposito e senza prove, il generale Riccò ha abbandonato le celebrazioni del 25 aprile a Viterbo. E il ministro Trenta ha aperto un'istruttoria nei suoi confronti. E' l'ultimo di una serie di segnali di insofferenza: c'è maretta fra i militari e una Difesa nelle mani del pacifista M5S.

Editoriali 09_05_2019
Elisabetta Trenta

Solitamente i militari non si occupano di politica, non parlano, se criticati incassano con grande professionalità. Tuttavia stiamo assistendo a un’eccezione. Di fronte ad accuse di omicidi di massa, citati a sproposito e senza prove, il generale Paolo Riccò ha abbandonato le celebrazioni del 25 aprile a Viterbo. Le accuse erano mosse dal presidente dell’Anpi, Roberto Mezzetti. Ha fatto un discorso molto politico. Fra le altre cose ha accusato indirettamente l’esercito italiano, che è presente in Afghanistan assieme alle forze Nato. Per Mezzetti, le truppe della Coalizione «Hanno ucciso più civili che Talebani» (dato che attribuisce a "rapporti", ma che non è corroborato dalle statistiche). Ha detto genericamente che «Le stragi le sta commettendo l’Occidente sui musulmani, sugli arabi». E ha rincarato la dose con: «Capisco che per certi personaggi il principio di umanità non ha nessun valore» (lo si sente qui dal minuto 15). Il tutto dopo aver sminuito la portata degli attentati islamici, che a suo dire sarebbero motivati dalle stragi occidentali. Di fronte a questo attacco a testa bassa, il generale Riccò, appunto, se n’è andato. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, tuttavia, ha aperto un’istruttoria nei confronti … del generale.

Il ministro Trenta ha esposto le sue ragioni sui social network, mantenendo l’equidistanza fra le parti: «credo che entrambi (ovvero, il generale Riccò e il presidente provinciale dell’Anpi di Viterbo, Mezzetti, ndr) abbiano adottato comportamenti non adeguati al contesto delle celebrazioni». «I militari dovrebbero rimanere sempre al di fuori delle dispute di natura politica». Sui social è nato subito un gruppo, che conta oltre 4.400 iscritti, «Io sto con il generale Paolo Riccò».

Il malumore nei confronti del Movimento 5 Stelle in particolare, è motivato anche da una notevole trascuratezza sul budget militare. Il “decreto missioni” con cui si definiscono gli interventi militari all’estero è scaduto a fine anno scorso e, quindi, tutte le attività si svolgono formalmente in regime di proroga senza copertura finanziaria. Il “decreto per l’industria aeronautica” che determina i finanziamenti per la ricerca tecnologica civile è stato annunciato dal ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio il 19 febbraio, ma non se ne sa più nulla. Così come di quello per i programmi militari, preannunciato nella stessa occasione come prossimo all’emanazione. Il “Dpp – documento programmatico pluriennale 2018-­2020” è stato presentato dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta a ottobre e secondo Michele Nones, dell’Istituto Affari Internazionali «ha rappresentato un vero e proprio “libro dei sogni”, poiché non ha tenuto conto dei tagli preannunciati dal Governo, precisati nella legge di bilancio 2019».

In Italia è sempre esistita una parte politica favorevole al disarmo e contraria alle missioni all’estero. Nella Seconda Repubblica questa era rappresentata soprattutto da Rifondazione Comunista, a cui si univa spesso anche Italia dei Valori (Di Pietro). Ora quest’ala del parlamento pacifista è rappresentata dal partito più grande del Paese, il Movimento 5 Stelle. Con coerenza e costanza, nei suoi cinque anni di opposizione, ha sempre votato contro gli F-35 e i nuovi armamenti, contro il finanziamento delle missioni all’estero e per un sostanziale disarmo. Manlio Di Stefano, nel 2014, nel pieno del genocidio dei cristiani in Siria e Iraq, si era opposto anche all’intervento della Coalizione contro l’Isis, definendolo un atto di “imperialismo” poiché “per capire l’Isis serve rispetto”.

Arrivati al governo, i pentastellati parlano molto meno, ma agiscono coerentemente con le idee che hanno sempre espresso. Il nocciolo del pacifismo italiano, al di là delle contingenze storiche, è sempre nell’interpretazione dell’articolo 11 della Costituzione, quello per cui l’Italia “ripudia la guerra”. I pacifisti, fra cui anche molti cattolici, si fermano a queste tre parole e le interpretano in modo letterale come prescrizione al disarmo totale. Ogni intervento in patria e all’estero viene dunque condannato come anti-costituzionale. Ma è legittima tale interpretazione? Lo stesso articolo 11 non si ferma alla prima frase: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Quindi vieta la guerra come strumento di offesa o di politica di potenza, ma non è così categorico quando i militari italiani agiscono (come sempre hanno agito dal 1945 ad oggi) nell’ambito di missioni internazionali di peace keeping.

Contrariamente ai cattolici pacifisti, pur condannando la guerra, anche la Dottrina Sociale della Chiesa ritiene giusta la guerra difensiva: “Una guerra di aggressione è intrinsecamente immorale. Nel tragico caso in cui essa si scateni, i responsabili di uno Stato aggredito hanno il diritto e il dovere di organizzare la difesa anche usando la forza delle armi” (500). “La Carta della Nazioni Unite, scaturita dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e volta a preservare le generazioni future dal flagello della guerra, si basa sull'interdizione generalizzata del ricorso alla forza per risolvere le contese tra gli Stati, fatti salvi due casi: la legittima difesa e le misure prese dal Consiglio di Sicurezza nell'ambito delle sue responsabilità per mantenere la pace” (501). “Le esigenze della legittima difesa giustificano l'esistenza, negli Stati, delle forze armate, la cui azione deve essere posta al servizio della pace: coloro i quali presidiano con tale spirito la sicurezza e la libertà di un Paese danno un autentico contributo alla pace” (502). Questi sono principi cattolici, pacifici, ma non pacifisti. Non giustificano l’eliminazione delle forze armate, né tantomeno la loro pubblica umiliazione.