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L'EDITORIALE

Perché un'altra guerra?

Surreali e difficilmente comprensibili gli eventi che hanno portato all'attacco contro Gheddafi. Ma ora che la guerra è iniziata speriamo almeno che possa finire presto evitando altre sofferenze ai civili.

Editoriali 21_03_2011

Surreale, difficilmente spiegabile. Non si può definire in altro modo quanto sta avvenendo in questi giorni attorno alla Libia.


In due giorni si è entrati in guerra quasi senza neanche accorgersene, passando da una risoluzione all’Onu all’intervento armato in modo automatico. Senza una parvenza di dibattito politico – e non è che in queste settimane ne fosse mancato il tempo - e senza una strategia militare e politica comprensibile, oltre alla decisione di far fuori Gheddafi (verso il quale, sia ben inteso, non si può che avere riprovazione).


È forte la tentazione di pensare che l’intervento militare sia il rimedio – affrettato e non adeguatamente ponderato – a un’incapacità politica di comprendere quanto sta avvenendo, non solo in Libia ma in tutto il Nordafrica e Medio Oriente. Ricordiamo che la rivolta libica aveva preso di sorpresa tutti quanti, perché il regime di Gheddafi sembrava quello meno esposto al contagio dei moti di piazza, come quelli avvenuti in Tunisia ed Egitto. Dopo qualche giorno di indecisione, tutti i leader europei, ritenendo Gheddafi ormai finito, si sono precipitati nell’opera di demonizzazione, un tentativo di lavarsi in fretta la coscienza dopo decenni di complicità e grossi affari portati a termine con il “tiranno” che oggi viene deferito al Tribunale penale internazionale contro i crimini di guerra.

Lo abbiamo già fatto, ma vale ancora la pena ricordare che solo pochi mesi fa la Libia di Gheddafi è stata votata a stragrande maggioranza come membro della Commissione Onu per i diritti umani, senza che Sarkozy, Cameron e Obama avessero nulla da ridire.


Il problema è che la realtà ha colto di sorpresa per la seconda volta i leader occidentali: Gheddafi non solo non era finito, come si credeva, ma ha addirittura cominciato a riprendersi il terreno perduto, fino ad arrivare alle porte di Bengasi, da dove la rivolta era partita. Da qui l’imbarazzo drammatico di una classe politica occidentale impreparata e istintiva, che si muove senza obiettivi e strategie chiare. Condivisibili o meno, ma chiare. Che cosa sarebbe successo restando a guardare? Come spiegare all’opinione pubblica che il “demone” tornava a essere un capo di stato con cui sedersi a tavola a negoziare, un interlocutore inevitabile visto che la Libia è fondamentale per l’approvvigionamento di petrolio e gas?


Eccoci allora in guerra contro Gheddafi, con la Francia a comandare le operazioni, probabilmente con la convinzione di poter strappare più lucrosi contratti petroliferi già concordati con le forze ribelli, magari a spese dell’Italia.


Ma il problema è che, a parte l’obiettivo di eliminare Gheddafi – ammesso che possa essere una questione che riesce in poco tempo -, non sembra esserci un’idea per il dopo. L’esperienza insegna che la caduta di un regime – vedi Iraq e Afghanistan – è soltanto l’inizio, e in fondo la cosa più semplice, di una guerra che non si sa dove conduce. Nel caso di Iraq e Afghanistan, inoltre, una strategia – condivisibile o meno –  era chiara, così come già decisa era la presenza di una forza multinazionale chiamata a realizzate sul terreno l’obiettivo di una ricostruzione economica e politica dei due paesi. Ma nel caso della Libia, tutto questo non esiste anche perché la Libia resta un paese diviso per tribù, a cui neanche Gheddafi ha voluto dare una parvenza di istituzioni statali: è ben difficile considerare il “consiglio dei ribelli” come un interlocutore realistico e affidabile.


Il rischio per il dopo-Gheddafi è la somalizzazione della Libia, una guerra fra tribù, magari con un governo appoggiato dai paesi occidentali che non è in grado di controllare alcunché. A meno che la “coalizione dei volenterosi” (un nome che riecheggia il profetico romanzo di R. Benson “Il padrone del mondo”) non decida di occupare militarmente anche il territorio libico.


Si interviene per salvare i civili dai massacri e dalle ritorsioni di Gheddafi, si è detto per giustificare l’intervento. Ma in questo caso il ritardo delle operazioni militari non sarebbe di qualche settimana ma di qualche decennio. E comunque questo dovrebbe allora portare ad attaccare quasi tutti i paesi africani e buona parte dell’Asia.


Con le crisi di Iraq e Afghanistan ancora aperte e tutt’altro che vinte, preoccupa l’apertura di un terzo fronte. E proprio mentre poco più in là, nel Golfo, è in atto una crisi militare che può essere decisiva per l’assetto geopolitico della regione, per l’approvvigionamento energetico e per la stabilità mondiale. Gli scontri in Bahrein, con l’intervento diretto dell’Arabia Saudita, stanno facendo salire pericolosamente lo scontro tra sciiti e sunniti che ha sullo sfondo anche la battaglia tra Arabia Saudita e Iran per la leadership regionale e per il controllo delle fonti energetiche mondiali. Ma su questa vicenda i leader europei appaiono distratti: sembrano non avere una strategia in Libia, non vedono i processi profondi della storia. A dimostrazione che, paesi che stanno smarrendo la coscienza della propria identità e della propria missione nel mondo, faticano a comprendere il presente e costruire il futuro.


Certo, ora che la guerra è iniziata, non si può fare a meno di augurarsi che finisca presto e che raggiunga l’obiettivo di detronizzare il rais di Tripoli, evitando per quanto possibile sofferenze alla popolazione civile. Facciamo nostre, dunque, le preoccupazioni, e la «viva trepidazione» e la «grande apprensione» espresse da Benedetto XVI all’Angelus di ieri: «Rivolgo un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l’incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari».