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L'INTERVISTA

Parsi: manca sull'Egitto una chiara politica Usa

L'esperto di relazioni internazionali esclude che la protesta possa contagiare anche altri Paesi d'area.

Attualità 31_01_2011
Mubarak e Obama
 
Vittorio Emanuele Parsi insegna Relazioni internazionali nonché Storia delle istituzioni militari e dei sistemi di sicurezza nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e nell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali istituita presso quell’ateneo dirige il master in Economia e Politiche Internazionali.

A proposito dei regimi nordafricani, travolti in poche settimane dalla rivolta della “piazza”, non ha dubbi. «Si tratta di governi in crisi profonda, anzitutto di legittimità e di rappresentanza. Sono cioè regimi che hanno completamente smarrito la capacità inclusiva e quindi ora non sanno come rispondere alle realtà dei Paesi che governano. È anzitutto questo l’elemento che ha indebolito  progressivamente la Tunisia e l’Egitto».

Ora però l’Egitto è ai ferri corti…
È stata la vittoria della “piazza” in Tunisia che ha innescato la rivolta lì. Grazie all’esempio tunisino, gli egiziani si sono resi per la prima volta conto che è possibile farcela e quindi sono scesi in piazza pure loro.

Prevede un effetto contagio che possa allargare la rivolta ad altri Paesi della regione?
Dubito. Nell’area che va dall’Africa Settentrionale costiera al Medioriente, i Paesi oggi più stabili sono da un lato il Marocco e dall’altro la Giordania. Questo perché i governi di quei Paesi sono stati capaci di anticipare, in certa misura, gli eventi più dirompenti iniziando ad affrontarne i nodi. In quei luoghi vi è per esempio maggiore pluralismo e sono pure state varate alcune riforme sociali e politiche necessarie prima che fosse troppo tardi. Tuto questo ha fatto sì che in quei luoghi le tensioni si stemperassero.
Vi sono poi altri casi, per esempio quello della Siria e dell’Iran: Paesi assai diversi ma accomunati da una certa, diciamo, disinvoltura nell’utilizzo della repressione delle opposizioni e delle proteste che ha soffocato sul nascere ogni possibilità di cambiamento…

Qualcuno paventa il pericolo islamista, temendo che la “piazza” egiziana che chiede oggi democrazia e libertà possa facilmente essere strumentalizzata e poi occupata dalle frange più estremiste…
Certo, il rischio c’è, piuttosto concreto. È davvero inutile dire del contrario. Sul terreno il mondo islamista è quello meglio e più organizzato. Se desidera e se ne ha le condizioni pratiche può cercare di prendere il sopravvento. E le altre opposizioni non sono  davvero in grado di opporre altrettanta organizzazione.

E allora non sarebbe più opportuno sostenere Mubarak?
Mubarak non si può sostenere perché non ce la fa più a stare in piedi… È inevitabile che la sua leadership crolli. Ciò non significa peraltro che assieme a lui scompaia pure il suo regime, ma questo è un altro discorso.

Vede la possibilità che un regime egiziano di tipo “laico” senza Mubarak possa chiudersi in una sorta di neonazionalismo, magari pensato proprio per sottrarre terreno alla minaccia islamista?
No, non lo credo. Può darsi che i militari possano irrigidirsi per qualche tempo, ma questo servirebbe solo a “tirare a campare”… Dopo di ché, è inevitabile cerchino un qualche accordo con le opposizioni.

L’Egitto è un Paese cruciale per gli equilibri di quella sponda del Mediterraneo ed è un alleato storico degli Stati Uniti. Come giudica la politica estera americana in merito alla situazione egiziana?
Quale politica estera americana? Gli Stati Uniti dell’Amministrazione guidata da Barack Obama sono sempre due passi indietro rispetto al corso degli eventi. Oggi manca una vera politica estera statunitense: in generale e quindi a maggior ragione per uno scenario caldo come quello di cui stiamo discutendo. Al massimo Washington è riuscita a combinare pasticci…