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DOPO 18 ANNI

Pace fra Eritrea ed Etiopia, ma l'Africa resta instabile

L'Etiopia accetta gli accordi del 2000. Il suo presidente e quello eritreo hanno dichiarato che «abbiamo inaugurato una nuova era di pace e amicizia» e «siamo decisi a chiudere un capitolo doloroso della nostra storia». Ma se la speranza è tanta, non si può non pensare a quanto sta avvenendo nel vicino Sudan del Sud.

Esteri 12_07_2018

La guerra tra Etiopia ed Eritrea è finita. Il 9 luglio il primo ministro etiope Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afewerki hanno firmato un accordo di pace, dopo 18 anni di tensioni e isolamento. Il conflitto armato tra i due paesi era iniziato nel 1998:  inspiegabile, considerando che a provocarlo era la demarcazione della linea di confine per decidere l’attribuzione di una distesa di sassi e sterpaglie e di Badme, una cittadina con poco più di 1.500 abitanti. Inoltre all’epoca l’Eritrea era indipendente soltanto dal 1993 e in pace dal 1991, anno in cui aveva conquistato l’indipendenza dall’Etiopia, dopo una guerra durata 30 anni: troppo presto, si disse, per ricominciare a combattere e perdere altre vite umane. Si calcola che il conflitto abbia causato circa 80.000 morti e costretto alla fuga dai territori contesi 400.000 persone.  

Nel 2000 in effetti Eritrea ed Etiopia avevano deposto le armi e acconsentito all’istituzione di una commissione internazionale incaricata, sotto l’egida delle Nazioni Unite, di stabilire l’esatto confine. Due anni dopo la commissione aveva assegnato i territori contesi all’Eritrea. Ma l’Etiopia non ha accettato la risoluzione, non ha ritirato le sue truppe e, quando nel 2008 la Unmee, la missione Onu incaricata di monitorare il cessate il fuoco e far rispettare il confine tracciato, ha concluso il suo mandato, le tensioni si sono accentuate, con reciproche accuse di sconfinamenti e scontri armati, tanto intensi in particolare nel 2012 e nel 2016 da far temere un’altra guerra.

Quando lo scorso aprile ha assunto la carica, il premier etiope Abiy ha dichiarato che non era da escludere una svolta nei rapporti tra i due paesi. Ma nessuno pensava che si potesse verificare così presto. Invece il 5 giugno il Fronte democratico rivoluzionario popolare dell’Etiopia, la coalizione al potere, ha annunciato l’intenzione di dare attuazione completa all’accordo di pace siglato nel 2000. Infine, domenica scorsa 8 luglio, a sorpresa,  il premier Abiy si è recato ad Asmara, la capitale Eritrea, per incontrare il presidente Afewerki. Le immagini del loro abbraccio hanno fatto il giro del mondo. «Abbiamo inaugurato una nuova era di pace e amicizia»; «Siamo decisi a chiudere un capitolo doloroso della nostra storia»: questi i tweet dei portavoce dei due leader, il giorno successivo.

Alla stampa Abiy e Afewerki hanno confermato che i loro paesi intensificheranno i legami politici, economici e diplomatici. Verranno subito ripristinati i trasporti via terra e aerei e le  linee telefoniche e l’Etiopia, che non ha sbocchi sul mare, potrà utilizzare i porti eritrei sul Mar Rosso. Il ministro dell’informazione eritreo, Yemane Gebre Meskel, ha inoltre assicurato che d’ora in poi i due paesi collaboreranno per garantire pace, sviluppo e cooperazione nella regione. 

Nei 18 anni trascorsi le tensioni tra Etiopia ed Eritrea hanno avuto ripercussioni negative nel Corno d’Africa e nei paesi vicini. Il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, ha quindi salutato con soddisfazione lo storico riavvicinamento garantendo: «Siamo tutti con voi».  Paul Kagame, presidente del Rwanda e presidente di turno dell’Unione Africana, ha elogiato il coraggio di Abyi e Afewerki complimentandosi: «Stanno facendo la cosa giusta per i loro popoli». A sua volta il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha commentato l’evento dicendo che i recenti sviluppi dimostrano che «un nuovo vento di speranza sta soffiando in Africa». 

Ma è un vento debole, discontinuo. Mentre si esulta per la decisione di Etiopia ed Eritrea – e tuttavia è solo l’inizio di un lungo percorso in vista di una pace duratura, ancora non si sa neanche quando le truppe etiopi lasceranno i territori contesi – negli stessi giorni notizie deludenti arrivano dal vicino Sudan del Sud dove avrebbe dovuto entrare in vigore un cessate il fuoco e invece si registrano nuovi combattimenti. Si sperava che il 9 luglio il paese potesse celebrare in pace il 7° anniversario dell’indipendenza dal Sudan, ottenuta nel 2011 dopo una guerra durata decenni. Solo due anni dopo, nell’estate del 2013, lo scontro per il potere tra due leader, il presidente Salva Kiir e il suo vice Riek Machar, e le rispettive etnie Nuer e Dinka, trascinava il paese in una atroce guerra civile spazzando via ogni speranza e prospettiva di sviluppo e stabilità.

Il 27 giugno Kiir e Machar hanno firmato un accordo di pace che prevedeva un cessate il fuoco entro 72 ore e il reinsediamento di Machar nella carica di vicepresidente. Però i combattimenti da allora sono continuati. Inoltre il 9 luglio le forze antigovernative hanno annunciato che intendono respingere il piano di pace, benché il 7 luglio fosse stata ribadita la riconferma del loro leader alla vicepresidenza. Il portavoce di Riek Machar ha spiegato che si tratta soltanto di un accordo verbale, che nulla è stato ancora firmato e inoltre che la proposta riguarda unicamente le cariche politiche e ignora le riforme necessarie per un radicale cambiamento. 

Nel frattempo è stato pubblicato un rapporto delle Nazioni Unite che contiene testimonianze di violenze estreme inflitte alla popolazione dalle forze governative e alleate nei mesi di aprile e maggio nello stato meridionale di Unity. Si parla di stupri di gruppo, persone sgozzate, uccisioni di massa. Potrebbe trattarsi di crimini di guerra, sostiene l’Onu, che, in tal caso, si ripromette di portare davanti alla giustizia i responsabili.