Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
LA RELAZIONE SULLA 194

“Meno aborti nel 2017”. Ma è proprio così?

È stata trasmessa al Parlamento la relazione sull’attuazione della legge 194, che registra 80.733 aborti ufficiali nel 2017, in calo rispetto al 2016. Eppure rimane un numero impressionante di vittime innocenti, che non tiene nemmeno conto dell’aumento esponenziale nella vendita degli pseudo “contraccettivi d’emergenza”. Allarmante anche il dato sugli aborti volontari oltre i 90 giorni.

Vita e bioetica 31_01_2019

Il 18 gennaio 2019 è stata trasmessa al Parlamento la relazione annuale sull’attuazione della legge 194/1978, contenente i dati definitivi relativi all’anno 2017. Il sito del ministero della Salute sottolinea la progressiva diminuzione del numero degli aborti. A prima vista, si potrebbe pensare che la cultura della vita si stia lentamente affermando e quindi vi sia qualche motivo di sollievo, per quanto il numero di 80.733 vittime sia impressionante.

L’attenta lettura della relazione, come evidenziato dall’Aigoc (Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici) nel comunicato stampa del 24 gennaio, rivela una serie di punti critici, che spengono ogni facile ottimismo. Innanzitutto, un problema di metodo. È preoccupante il rilevante numero di “dati non rilevati”. Il problema riguarda: la rilevazione dell’epoca gestazionale negli aborti volontari oltre i 90 giorni (2.544 casi); il numero di aborti volontari fatti in regime di urgenza (3.952 casi); i casi di complicanze (2.525 casi).

Nell’era digitale, è inconcepibile che non vengano trasmessi dati essenziali per valutare scrupolosamente la situazione e offrire non solo al Parlamento ma soprattutto ai cittadini e alle donne un quadro veritiero sulla realtà. La mancanza di informazioni precise dimostra la mancanza di volontà di avere e offrire i dati completi e certi, e mette in discussione l’attendibilità della relazione stessa.

Nel merito, è allarmante la costante crescita degli aborti volontari oltre i 90 giorni (4.521, cioè il 5,6% di tutti gli aborti volontari). Il dato rappresenta un’evidente anomalia. In questa ipotesi, infatti, l’aborto è lecito “solo” in presenza di un grave rischio per la vita o per la salute della donna. Pertanto, tenuto conto dei notevoli progressi della medicina e delle avanzate metodiche diagnostiche prenatali, avremmo dovuto aspettarci una loro diminuzione e non un incremento. Quest’ultimo, quindi, può essere giustificato solo dalla crescente, strisciante e perniciosa “cultura dello scarto”, eugenetica, utilitaristica e di chiusura della vita, che sempre di più si va diffondendo. Si aggiunga, poi, che la cifra appare con ogni probabilità sottostimata, dato che, come ricordato, in 2.544 casi (3,2%) l’epoca gestazionale non è stata neppure rilevata.

Un altro elemento su cui riflettere è la progressiva crescita degli aborti in regime di urgenza (14.746), che in alcune regioni ha toccato percentuali nettamente superiori alla media. E, purtroppo, tra queste spicca il Piemonte, (34.6% contro il 19,2% di media). L’abuso dell’esecuzione in regime di urgenza costituisce, in primo luogo, una violazione dell’articolo 5 della legge 194/1978, che prevede una pausa di riflessione di 7 giorni dopo il rilascio del certificato. In questo modo, non solo si toglie alla donna la possibilità di meditare sul proprio proposito ma si impedisce, nella sostanza, la possibilità di intervenire in suo sostegno, allo scopo di rimuovere le ragioni che inducono all’interruzione della gravidanza. Si aggiunga che l’urgenza, contrariamente a quanto affermato nella relazione, non può essere giustificata da problemi logistici o dalla decisione di ricorrere all’aborto chimico con il Mifepristone (pillola RU486, il cui processo può essere invertito se si interviene in tempo) e le prostaglandine entro i tempi previsti nel nostro Paese (49 giorni di gestazione).

L’urgenza in ostetricia, infatti, non può che essere giustificata sotto il profilo medico da problemi di oggettivo pericolo per la vita della donna. E da questo punto di vista, occorre purtroppo ricordare che addurre come motivo d’urgenza il poter fare l’aborto farmacologico invece di quello chirurgico non è scientificamente giustificato perché la mortalità materna determinata dall’aborto chimico in Italia è nettamente superiore a quella dell’aborto chirurgico. Senza contare il maggior trauma psicologico vissuto dalla donna e talora anche dai familiari, dato che l’espulsione del bambino può avvenire a casa in qualsiasi momento.

La relazione appare poi gravemente lacunosa sul fronte delle complicanze. Il dato riportato, infatti, riferisce un numero senz’altro sottostimato e non giustificabile sotto il profilo dei dati statistici fino ad oggi registrati. Per di più, i dati non rilevati sono ben 2.525, fatto che ulteriormente inficia il valore informativo della relazione.

È chiaro che la reticenza sulle complicanze impedisce alla donna di esprimere un consenso realmente informato. Le donne continuerebbero a firmare con tanta facilità la cartella e andare a casa subito dopo aver assunto la prima pillola (RU486) piuttosto che rimanere ricoverate fino alla completa espulsione del bambino e degli annessi ovulari se fosse loro detto che il rischio di morte è 10 volte maggiore in questi casi e che comunque almeno il 6% di loro dovrà essere sottoposto a raschiamento della cavità uterina entro 10 giorni per emorragia?

Infine, va messo in discussione anche il dato sulla presunta diminuzione degli aborti. Leggendo attentamente la relazione ci accorgiamo che la diminuzione di 4.193 aborti registrata nell’anno 2017 è solo apparente. Vanno considerati, infatti, anche gli aborti precoci. Nell’anno 2017 sono state vendute 155.960 confezioni di EllaOne e Norlevo in più rispetto al 2016: con un tasso di concepimento del 20% ciò significa 31.192 aborti. A questi vanno ancora aggiunti gli aborti clandestini, stimati dall’Istituto Superiore della Sanità in 3.000-5.000 tra le donne straniere e 12.000-15.000 tra le donne italiane.

In conclusione, gli aborti non diminuiscono e la mentalità eugenetica e di chiusura alla vita appare ben radicata. Perché germogli una speranza affidabile nel domani di ogni donna e ogni uomo, perché sia vita, perché sia futuro, occorre impegnarsi con ancora più forza in difesa della vita.

* L'autore di questo articolo è socio del Movimento per la Vita di Casale Monferrato.