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ATEISMO

L'Uruguay congelato nel suo anticlericalismo

Uno Stato dell'America Latina ha bandito completamente la religione dalla vita sociale e persino dai nomi di feste e città: è l'Uruguay. I risultati, dopo quasi due secoli di vita, si vedono e sono pessimi.

Esteri 20_11_2013
Uruguay

Uno dei peggiori mali fisici, psichici e sociali che oggi affliggono i popoli evoluti e ricchi, è la droga, tutte le droghe, che aumentano artificialmente le potenzialità psichiche e fisiche dell’uomo, ma ne distruggono il sistema neuro-vegetativo riducendo a poco a poco il drogato ad una larva d’uomo. La lotta contro la droga e gli spacciatori di droghe è una delle priorità di tutti i governi. L’Uruguay entrerà presto nel “Guinnes” dei primati, poiché è il primo governo della storia a liberalizzare le “droghe leggere”. Il presidente dell’Uruguay, Josè Mujica, ha spiegato perché sostiene e approva questa riforma: il proibizionismo e la lotta senza quartiere a livello continentale e mondiale contro il commercio delle droghe non sono riusciti a estirpare questo “vizio sociale”. Occorre combattere le droghe legalizzandone l’uso e statalizzando la distribuzione regolamentata di “droghe leggere”. Alle persona con più di 18 anni sono permesse al massimo 40 sigarette di marijuana al mese, i consumatori che superano tale quantità saranno costretti a sottoporsi a trattamento riabilitativo.

La nuova legge è approvata solo dal 38% e condannata dal 62% degli uruguayani, ma la riforma è stata varata con 50 voti a favore su un totale di 96 seggi dalla Camera dei deputati. L’opposizione ha tentato di ostacolare questa operazione, ma il “Frente Amplio”, coalizione di sinistra al governo, ha approvato il disegno di legge; e al Senato i filogovernativi hanno una buona maggioranza. Lo Stato “assumerà il controllo e la regolamentazione” dell’intero ciclo produttivo della cannabis e dei suoi prodotti, dall’importazione dei semi delle piante fino alla commercializzazione della marijuana, che verrà venduta al consumatore attraverso le farmacie.

Così l’Uruguay, dopo aver depenalizzato l’aborto e approvato, primo fra i paesi latino-americani, il matrimonio fra i gay, è il primo paese al mondo che liberalizza la droga, in modo più ampio di quanto hanno fatto Olanda e California. La storia di questo piccolo paese sud-americano spiega, almeno in parte, questo primato poco appetibile. Vi sono stato nel 1992, invitato per una relazione sul rapporto ecclesiale fra Italia e America Latina, ad un congresso delle Chiese latino-americane. Dall’inizio del Novecento fino a dopo la seconda guerra mondiale, l’Uruguay era definito “la Svizzera del Sudamerica” e “Il paradiso degli emigranti”. Un paese di solida democrazia, senza analfabeti, economicamente prospero, con leggi sociali molto avanzate, più di quelle dell’Europa a quel tempo. Oggi è un popolo deluso, precipitato in basso nella classifica del reddito pro capite, dopo aver occupato i primi posti per più di mezzo secolo. Come per la vicina Argentina, la prosperità dell’Uruguay era basata sulle esportazioni di grano, prodotti della pastorizia e carne di manzo. Dal 1950 in avanti è scoppiata la crisi di questi prodotti, perché Stati Uniti ed Europa hanno cominciato ad essere autosufficienti, tagliando le importazioni. Lo “stato sociale” uruguayano è crollato, aprendo la strada alla guerriglia dei “tupamaros” e ad una crudele dittatura militare (1973-1985).

Oggi il paese sta riprendendosi, ma nel 1992 ho viaggiato, accompagnato dai missionari italiani OMI (Oblati di Maria Immacolata) fino a Rivera, Tacuarembo, Paso de los Toros, Cardona, Mercedes e Punta del Este, per incontrare missionari italiani e ovunque mi hanno detto che il paese non ha ancora trovato una via autonoma allo sviluppo e attraversa una profonda crisi d’identità, che è anche quella delle ideologie dominanti dall’indipendenza ad oggi: l’ateismo e il socialismo. Va ricordato che l’Uruguay, esteso due terzi dell’Italia con soli 3,5 milioni di abitanti (il 50% dei quali vivono a Montevideo!), è una sconfinata prateria a perdita d’occhio (la “pampa”), con acque e terre fertili ma quasi disabitata. L’Uruguay è nato nel 1828 come stato cuscinetto fra Argentina e Brasile (cioè fra spagnoli e portoghesi) con soli 60.000 abitanti, che alla fine del secolo erano già 600.000 per i molti immigrati dall’Europa spesso scampati alle repressioni delle monarchie europee e della restaurazione dopo la Rivoluzione francese: carbonari, socialisti, repubblicani, radicali, rivoluzionari di ogni genere avevano fatto dell’Uruguay il loro rifugio, fra i quali anche Giuseppe Garibaldi. Questo spiega l’irrequietezza politica del paese, tormentato da numerose guerre civili, e il suo radicalismo progressista e anticlericale.

All’inizio del Novecento il presidente José Ordònez fonda uno stato politicamente democratico e socialmente avanzato: abolizione della pena di morte (1905), insegnamento e assistenza sanitaria gratuiti, pensione sociale ai nullatenenti sopra i 60 anni, legge sul divorzio favorevole alla donna, il “Codice dei diritti dei lavoratori” (1920) che era considerato un modello dai paesi europei dopo la prima guerra mondiale. Lo “Stato assistenziale” dell’Uruguay ha funzionato bene fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando le esportazioni sono crollate e il paese, pur con forte tradizione socialista e progressista, è rimasto immobile, bloccato dalla mentalità conservatrice e dalla “crescita zero” demografica. Un piemontese, Rolando Passani che ha una piccola azienda tessile, mi diceva: «Quando sono immigrato in Uruguay nel 1953 con moglie e tre figli piccoli, questo paese era molto più avanzato della nostra Italia, politicamente ed economicamente. C’era un’atmosfera di libertà e di vivacità culturale che a me, dopo il fascismo, la guerra e le lotte ideologiche del nostro dopoguerra, mi sembrò straordinaria. Invece, negli anni Sessanta il mondo è cambiato e qui tutto è rimasto immobile, per cui oggi molta gente vive in miseria e senza lavoro».

In questo panorama, la povertà del popolo uruguayano che più mi ha colpito è quella spirituale. Un popolo scoraggiato, abbattuto, senza speranza e senza gioia di vivere. Oltre alla crisi economica soffre anche una forte crisi di identità nazionale. C’è un aspetto della tradizione e cultura uruguayana che spiega molte cose: l’ateismo e l’anticlericalismo che dominano la cultura e le istituzioni. L’Uruguay è il solo paese dell’America Latina nel quale un buon numero di persone non sanno che il 25 dicembre si celebra il Natale di Gesù Cristo. Infatti nel Calendario nazionale e nelle TV e giornali il Natale è segnato come “La Fiesta de los Ninos”, la Pasqua è “La Fiesta del Turismo”, l’8 dicembre “El dia de la Playa” (Il giorno della spiaggia quando inizia la stagione balneare). Dal 1919 il governo ha abolito i nomi religiosi di città e paesi: Santa Isabel è diventata Paso de los Toros (sebbene gli abitanti continuino a chiamarsi Isabeliti), San José è “Primero de Mayo”; nei giornali Dio si scrive dio, con la minuscola, la Costituzione proibisce tutti i segni religiosi in luogo pubblico. La Chiesa è stata pesantemente penalizzata e oggi la maggioranza della popolazione è senza assistenza religiosa, specie nelle campagne, per mancanza di sacerdoti. Nel 1992 a Montevideo la pratica religiosa, secondo dati ufficiali, era dello 0,5%, però nel censimento del 2011 il 54% degli uruguayani si dichiarano cattolici e il 26% atei.

Ricordando la mia visita nel 1992, a Mercedes incontro tre suore italiane “Serve della Divina Provvidenza” di Catania, alle quali è affidata una parrocchia di 10.000 abitanti, con un sacerdote che viene a celebrare una Messa alla domenica e nient’altro. «Abbiamo buoni rapporti con la gente – mi dice la superiora Maria Aurelia Ognibene – ci accettano volentieri nelle case. Il nostro lavoro è di visitare tutti, in città e nella campagna per farci conoscere e parlar loro della fede e della vita cristiana. C’è un’ignoranza spaventosa. Ad esempio, a noi chiedono l’assoluzione dei peccati. Della religiosità popolare c’è rimasto solo il battesimo e due o tre processioni l’anno. Non esiste il funerale religioso, mentre è abbastanza comune la Messa per i defunti. Il problema morale è grave. Ad esempio, le ragazze che vanno con uomini anche anziani per poter mangiare tutti i giorni, qui sono considerate come normalità. Manca assolutamente un sacerdote». Da più d’un secolo le forze culturali e politiche dominanti hanno lanciato campagne per creare l’“uomo nuovo” attraverso l’ateismo, insegnato nelle scuole, e il socialismo: «Con la ragione e senza dio avremo un uomo felice» dice uno slogan tradizionale. Fin dall’Ottocento l’Uruguay è stato un paese dominato dalla Massoneria.

Padre Quinto Regazzoni, dei Dehoniani, mi dice: «Sono in Uruguay da 13 anni e ho visto il fallimento del razionalismo e della modernità senza Dio. Qui la religione è veramente esclusa dalla vita sociale, politica, culturale, scolastica e si vede fin troppo. Lo dimostrano le famiglie disunite: sette matrimoni su dieci finiscono nel divorzio, l’Uruguay ha la più alta percentuale di suicidi in America Latina, dove in genere il popolo è cordiale, gioioso, ride facilmente, mentre in Uruguay c’è molta freddezza. Il paese è demograficamente depresso dall’inizio del Novecento, solo la massiccia immigrazione dall’Europa ha fatto crescere di poco la popolazione». I Dehoniani hanno a Montevideo un santuario della Madonna, frequentato da un buon numero di pellegrini. Mi dicevano che una notte hanno visto un’auto di lusso fermarsi davanti alla Grotta di Lourdes e scendere un uomo e una donna che si inginocchiano davanti a Maria. Un padre va a vedere e si trova davanti ad una delle più alte personalità dello Stato, che gli dice: «Per favore non dica a nessuno che mi ha visto qui. Siamo venuti per chiedere alla Madonna una grande grazia per nostro figlio. Se si venisse a sapere, la mia carriera politica sarebbe finita».

Questo è quel che ho visto nel 1992, quando la situazione religiosa stava già cambiando in meglio, anche grazie ai due coraggiosi viaggi compiuti da Giovanni Paolo II nel 1987 e nel 1988. Mi dicono che oggi la situazione religiosa sia migliorata. Ma a me basta quel che ho visto nel 1992, per giudicare come si riduce un paese e un popolo di immigrati, figli o nipoti di immigrati (il 40% di italiani!), in maggioranza formato da cattolici battezzati, con scarsa assistenza religiosa e con la cultura e politica nazionale che sono dichiaratamente atee e anticlericali.