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TERRORISMO

Lotta al jihadismo, se l'Occidente getta la spugna

Sia la nuova amministrazione Biden negli Usa che la Francia di Macron si interrogano sui loro lunghi conflitti contro il terrorismo jihadista. Gli Usa non riescono a porre fine al lungo conflitto in Afghanistan e se si ritirano sanno che i talebani prenderebbero il sopravvento. Idem dicasi per i francesi nel Sahel, nella campagna contro Isis e Al Qaeda.

Esteri 22_02_2021 English Español
Afghanistan, militari sul luogo di un attentato

Andarsene lasciando il terreno ai jihadisti e alle deboli forze governative locali oppure restare e combattere pur senza una prospettiva di vittoria a breve o medio termine? Il dilemma investe tutto l’Occidente nelle campagne contro i jihadisti in Afghanistan, Iraq e Sahel ma l’impressione è che in pochi si rendano davvero conto della portata strategica delle decisioni che verranno assunte.

Nei giorni scorsi il il generale Kenneth McKenzie, alla testa del Central Command statunitense responsabile per le operazioni in Iraq, Siria e Afghanistan, ha accusato i talebani di essere responsabili delle violenze in Afghanistan. “L’Isis impallidisce rispetto a quello che stanno facendo i talebani. Stanno scatenando una serie di attacchi in tutto il Paese contro le forze afgane, con omicidi mirati in diverse aree urbane. La violenza non è diretta a noi o ai nostri amici della coalizione Nato, è diretta contro le forze militari e di sicurezza afghane e anche contro il popolo” - ha detto McKenzie.

Il Pentagono ha accusato già il 29 gennaio i talebani di non aver mantenuto le promesse che includono la riduzione degli attacchi e il taglio dei legami con gruppi terroristici come al-Qaeda. I Talebani, che lanciato una serie di offensive soprattutto nel Sud, hanno risposto esortando gli USA a rispettare l’accordo di Doha raggiunto con Donald Trump che prevede il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan entro maggio in cambio di garanzie di sicurezza. L’Amministrazione Biden sembrerebbe valutare una revisione dell’accordo, ma non è ancora chiaro se si tratti di una rivalutazione dell’intera campagna militare o solo di una ripicca nei confronti dell’amministrazione precedente. “Senza il rispetto dell’impegno di rinunciare al terrorismo ed interrompere gli attacchi contro le forze di sicurezza afghane e quindi al popolo afghano, è molto difficile vedere nello specifico come possiamo avanzare con l’accordo negoziato”, aveva detto a fine gennaio il portavoce del Pentagono, John Kirby, sottolineando che quindi ancora nessuna decisione era stata presa.

Kirby aveva ribadito che l’amministrazione Biden vuole mantenere l’impegno preso con l’accordo. “Il segretario alla Difesa è stato chiaro nella sua audizione al Senato che dobbiamo trovare una fine ragionevole e razionale a questa guerra, e questo deve avvenire attraverso un accordo negoziale che coinvolga il governo afghano”. Il segretario di Stato, Antony Blinken, ha annunciato invece una revisione dell’accordo per “comprendere esattamente gli impegni che sono stati presi dai Talebani e gli impegni presi da noi”.  Al di là delle sfumature del linguaggio politico, la questione appare molto chiara, almeno in termini militari: il ritiro degli USA e degli alleati determinerà un attacco talebano su vasta scala teso a scardinare le difese delle forze di Kabul e a riprendere il controllo della nazione centro-asiatica.

Se gli americani mostrano incertezze e titubanze anche la NATO non può che accodarsi. “Stiamo affrontando molti dilemmi e non ci sono opzioni facili. Non abbiamo preso una decisione finale sulla nostra presenza futura, ma dato che la scadenza del 1° maggio si avvicina, continueremo a consultarci e a coordinarci insieme come Alleanza” ha detto il 18 febbraio il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, dopo il summit dei ministri dell’Alleanza Atlantica. Per Stoltenberg, la Nato “lascerà l’Afghanistan solo quando sarà il momento giusto”, la priorità “è sostenere il dialogo e gli impegni per la pace”, che rappresentano “l’unico percorso per la pacificazione” del Paese nel quale “gli Alleati sono andati assieme e se ne andranno assieme”. “Nella mia recente visita in Afghanistan” – ha affermato il ministro della Difesa italiano, Lorenzi Guerini – “ho registrato l’apprezzamento delle autorità afghane per quello che abbiamo fatto in questi anni e la loro preoccupazione per il rischio di vanificare tutti i progressi fin qui fatti”. In questo clima anche la Germania sembra prepararsi a un prolungamento della missione in Afghanistan che potrebbe essere presto votato dal Bundestag. Berlino schiera circa 1.300 militari nel nord il cui mandato, in scadenza a fine marzo, dovrebbero venire confermato senza decurtazioni degli effettivi.

In Iraq e Siria la situazione non è meno incerta. Mentre lo Stato Islamico sta tornando a essere attivo e sempre più organizzato e letale la presenza degli USA risulta sempre meno gradita sia alle forze del governo siriano (che le considerano invasori) sia alle truppe turche che hanno occupato parte del nord di Siria e Iraq (che le ritengono amiche dei “terroristi” curdi) sia alle milizie irachene scite filo iraniane (che attaccano con razzi e mortai le basi della Coalizione). Per dare un segno di discontinuità con l’Era Trump, l’amministrazione Biden ha inviato 200 militari in più in Siria Orientale (dove gli americani sono meno di un migliaio), valuta di inviare qualche rinforzo in Iraq, dove sono presenti appena 2.500 militari USA, come in Afghanistan. Forze in ogni caso insufficienti a costituire un deterrente credibile o ad addestrare e appoggiare sul campo di battaglia le truppe governative locali.

Per questo, se la Casa Bianca dovesse rinunciare al ritiro dovrà procedere a un nuovo rafforzamento dei contingenti, specie quello in Afghanistan, chiedendo di nuovo un aiuto agli alleati della NATO e rinnovando un tira e molla strategico che ha reso inutili le vittorie del passato e inconsistenti le capacità operativa messe in campo. Un contesto che sta caratterizzando, ridicolizzandolo, il ventennale impegno bellico USA e NATO contro il jihad.

Lo stesso dilemma lo affronta in questi mesi la Francia nel Sahel. Il presidente Emmanuel Macron, ha annunciato il 16 febbraio al vertice del G5 Sahel a N’Djamena, che la presenza militare francese nel Sahel verrà rivista, come chiedono in molti a Parigi, ma non immediatamente. “Evoluzioni senz’altro significative saranno apportate al nostro dispositivo militare a tempo debito ma non nell’immediato”, ha dichiarato Macron. L’Operation Barkhane contro i jihadisti del Sahel non subirà quindi riduzione, per ora: impegna 5.100 militari con 500 blindati, oltre 400 veicoli logistici, una ventina di aerei e una quarantina di elicotteri che affiancano le forze di Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania (G5 Sahel), oltre ai caschi blu dell’ONU in Mali. Nella regione sono presenti anche forze militari statunitensi, peraltro in fase di riduzione in Africa. Un impegno logorante pagato da Parigi con 55 caduti, centinaia di feriti e costi che hanno superato il miliardo annuo senza che le battaglie vinte abbiano portato alla sconfitta decisiva del nemico e senza che i partner europei siano scesi in campo con truppe e mezzi consistenti.

Se escludiamo piccoli contingenti cechi, estoni, svedesi e presto anche italiani alla task Force Takuba di forze speciali, la campagna contro i jihadisti di al-Qaeda (Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani e la Katiba Macina) e Stato Islamico (Stato Islamico nel Grande Sahara) è rimasta un “affaire” francese. Eppure basta dare un’occhiata alla mappa per comprendere che arginare i jihadisti nel Sahel sarebbe interesse comune e che quella campagna dovrebbe essere combattuta da tutta l’Europa non solo dalla Francia. Una vittoria dei jihadisti in questa ragione aumenterebbe la pressione sulle nazioni del Nordafrica, già pesantemente esposte alla minaccia jihadista, e sull’Europa Meridionale. L’ampliamento del raggio d’azione delle forze jihadiste è già di fatto una realtà: nel novembre 2020 il direttore della Direzione generale della sicurezza esterna (DGSE), Bernard Emié, ha affermato che al-Qaeda sta sviluppando un “progetto di espansione” verso il Golfo di Guinea, in particolare in Costa d’Avorio e in Benin.

Nel gennaio 2020 al vertice di Pau la Francia aveva annunciato l’invio di 600 militari in rinforzo nel Sahel ed aveva indicato nello Stato Islamico nel Grande Sahara il nemico principale da sconfiggere: un anno dopo Parigi pone l’accento sulla necessità di combattere le milizie di al-Qaeda rafforzatesi al punto che i governi di Mali, Niger e Burkina Faso prevedono ormai di aprire negoziati con gli insorti. Esattamente come hanno fatto gli USA e poi il governo di Kabul con i talebani. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.