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GRAMMY

Lo spot della Clinton e il Wc d'oro chiamato America

Ai Grammy, uno dei principali premi musicali al mondo, hanno vinto Bruno Mars e Kendrick Lamar. Ma non sono stati loro al centro dell’attenzione. Un’altra star ha rubato loro la scena: Hillary Clinton. Scene di intellettuali organici in guerra contro il presidente americano

Editoriali 30_01_2018
Hillary Clinton ai Grammy Awards

Ai Grammy, uno dei principali premi musicali al mondo, hanno vinto Bruno Mars e Kendrick Lamar. Ma non sono stati loro al centro dell’attenzione. Un’altra star ha rubato loro la scena: Hillary Clinton. Ebbene sì, l’ex candidata democratica alla Casa Bianca, perdente nelle elezioni del 2016, ha trovato modo di farsi uno spot elettorale fuori tempo massimo.

In un video, sotto la guida del presentatore della serata, James Corden, diverse star della musica pop americana, fra cui Cher o Snoop Dogg, leggono brani del libro Fire and Fury, la prima “biografia non autorizzata” del presidente scritta dal giornalista Michael Wolff con l’unico scopo di mettere in difficoltà Donald Trump. Nella piccola gag, tutte le star commettono errori nella lettura, o ci ricamano sopra loro battute prima di essere scherzosamente interrotti da Corden. Finché non arriva la Clinton (il cui volto resta nascosto dal libro fino alla fine della lettura del suo brano) che “vince” la competizione. “Ho il mio Grammy in tasca, allora?” chiede strizzando l’occhio al comico. E può anche essere letto come un premio di consolazione per aver perso le elezioni, ma la sensazione è tutt’altra: che sia, nel suo piccolo, un modo di dire “era lei che doveva sedere alla scrivania dello studio ovale”.

Non che il resto della manifestazione sia stato apolitico. Tutt’altro. Camila Cabello, cantante, per presentare la performance live dei vecchi U2, si è sentita in dovere di perorare la causa dei “dreamers”, i giovani entrati abusivamente negli Usa quando erano bambini, il cui status è in discussione al Congresso. Gli U2 stessi hanno suonato su una chiatta di fronte alla Statua della Libertà di New York (la prima cosa che gli emigranti vedevano dalla nave), premettendo: “Beati quei cessi di paesi che ci hanno donato il sogno americano”. Altra botta alla citazione, apocrifa, del presidente.

A settembre, ma la notizia è stata diffusa dal Washington Post solo la settimana scorsa, il museo Guggenheim si è rifiutato di prestare alla Casa Bianca un quadro di Van Gogh, il “Paesaggio con la neve”. In compenso, la curatrice Nancy Spector, con una lettera dai toni velatamente sarcastici, ha offerto in cambio di prestare la tazza del water d’oro di Maurizio Cattelan. Un’installazione che si intitola America: dunque, uno sberleffo un paese visto come ricco e volgare, prodotto da un artista italiano dichiaratamente anti-capitalista (è lo stesso scultore del dito medio di fronte alla Borsa di Milano). Ed è probabilmente così che l'intellighenzia americana vede e giudica il proprio paese e il suo attuale presidente. Come un "cesso d'oro". Il suo autore, si legge nella lettera “sarebbe disposto a offrirla alla Casa Bianca per un prestito di lungo periodo. Ovviamente si tratta di un’opera di grandissimo valore, e in qualche modo anche fragile, ma saremmo lieti di fornire tutte le istruzioni per la sua installazione e manutenzione”. Una scivolata di stile senza precedenti. Basti considerare che i maggiori musei statunitensi hanno sempre prestato quadri di valore alla Casa Bianca, anche per lunghi periodi di tempo. Agli Obama, i musei prestarono ben 47 opere.

E non è finita qui. Al momento di decidere le candidature agli Oscar, si è notata una curiosa concentrazione di nomination, ben 13, a un’opera fantastica, La forma dell’acqua, una commedia fantascientifica firmata da Guillermo del Toro (regista messicano) che narra la storia d’amore di una donna muta con il mostro della laguna (sì, proprio l’anfibio umanoide che terrorizzò l’America ingenua degli anni ’50). Non si era mai vista una simile pioggia di candidature per un film del genere fantastico. E’ un caso senza precedenti. Che gli osservatori più attenti, dalla conservatrice National Review alla britannica e più progressista BBC, si spiegano con un solo motivo: è un film esplicitamente contrario alla politica di Trump, con allusioni al tema della “diversità” e dell’immigrazione dal Sud America, a quello della discriminazione dei neri e ai diritti Lgbt.

Insomma, nella guerra santa contro il presidente ogni artista, ogni regista, ogni cantate, ogni curatore di museo, sente il bisogno di scagliare la sua pietra. Si sentono eroi della nuova "resistenza", proclamata fra gli altri dall'attrice Jodie Foster nelle manifestazioni di protesta dell'anno scorso, quelle che salutarono l'insediamento del nuovo presidente appena eletto. Tanto anche Soros, a Davos, afferma che probabilmente Trump non arriverà neppure a fine mandato. E, sempre a Davos, i giornalisti si sentono liberi di fischiare apertamente il presidente, in piena conferenza stampa. Quindi, di che si preoccupano?

Una campagna analoga, altrettanto martellante e asfissiante, venne condotta per quasi otto anni ininterrotti contro George W. Bush. Anche in quel caso si mobilitarono tutti i big delle sette arti. E gli attribuirono ogni colpa, anche per l’uragano Katrina del 2005 (non per l’inefficienza dei soccorsi, no: proprio per l’uragano, causato, a dir loro, dalla sua politica contraria ai protocolli di Kyoto sul cambiamento climatico). Ogni presidente repubblicano, ormai, pare dover subire il linciaggio mediatico globale. La Clinton ai Grammy è solo un esempio eclatante di un mondo dei media ormai ridotto a succursale del Partito Democratico. Dagli intellettuali impegnati, agli intellettuali organici, il passo è stato breve e si è compiuto soprattutto sotto le presidenze Clinton negli anni ’90 e Obama negli otto anni scorsi.

Se sono diventati intellettuali organici, non lo si deve solo al paziente lavoro di conquista delle cittadelle della cultura da parte delle amministrazioni di sinistra. Lo si deve semmai alla polarizzazione della politica americana contemporanea. Se fino alla fine della Guerra Fredda, i due partiti democratico e repubblicano erano dei contenitori eterogenei di correnti di pensiero ed entrambi tendevano a convergere su posizioni di centro, dagli anni '90 i due partiti hanno iniziato a incarnare valori opposti. I Democratici sono dominati sempre più dai loro radicali e progressisti, ora sta affermandosi (prima volta in assoluto), anche un socialista, Bernie Sanders. I Repubblicani sono ormai stabilmente a trazione conservatrice. E' una divisione anche geografica, i Democratici hanno tutte le città, i Repubblicani li assediano da tutte le campagne. I Democratici vogliono più immigrazione e multiculturalismo. I Repubblicani difendono i valori cristiani e non vogliono un'immigrazione incontrollata. I Democratici vogliono più Stato, i Repubblicani più comunità. Nel 2016, al popolo è stata fatta un'offerta che non poteva rifiutare, quella della prima presidente donna. E il popolo ha optato a maggioranza per l'offerta opposta, il miliardario "cafone" che ha successo negli affari e non lesina insulti ai suoi avversari. Da qui è nato l'odio irrefrenabile degli intellettuali e dei ceti urbani contro quel "cesso d'oro" chiamato America.