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IL CASO

Libia, italiani disarmati in balia dei terroristi

Alcuni banditi armati sono penetrati nel compound utilizzato dai militari italiani a Tripoli. In Libia non siamo in grado di garantire la nostra sicurezza perchè siamo disarmati.

Esteri 17_08_2013
Tripoli

L’irruzione di alcuni banditi armati che lunedì scorso sono penetrati nel compound utilizzato dai militari italiani dislocati a Tripoli nell’ambito della missione addestrativa Cyrene non ha avuto molta eco sui media italiani nonostante abbia evidenziato la vulnerabilità del nostro dispositivo militare in Libia. Per fortuna si è trattato solo di malviventi che si sono allontanati dopo aver razziato alcuni telefoni cellulari, oggetti di valore e due auto blindate utilizzate dai cento militari italiani che curano l’addestramento di esercito e polizia libici e gestiscono i rapporti di cooperazione militare tra i due Paesi.

Scarne le informazioni rese note dalla Difesa che con un breve comunicato ha evidenziato il recupero della refurtiva ma la “vera notizia” (e non solo dal punto di vista giornalistico)  è che i banditi armati di kalashnikov sono potuti penetrare senza difficoltà nella base italiana, a quanto pare composta da quattro palazzine prive di reali protezioni i cui accessi sono presidiati da alcune guardie private libiche la cui efficacia e affidabilità è stata smentita dalla facilità con la quale i malviventi sono entrati e usciti dal compound italiano.

Il vero problema, del quale non si è mai parlato fino ad oggi, è rappresentato dal fatto che i nostri militari non sono in grado di garantire la propria protezione perché sono disarmati. Una condizione inaccettabile in un Paese alla deriva in balìa di 200 mila miliziani armati inclusi migliaia di qaedisti e oltre 14 mila criminali evasi dalle carceri durante la guerra civile del 2011 e mai riacciuffati. L’operazione Cyrene, varata a Bengasi durante il conflitto con una decina di ufficiali incaricati di fornire consulenza alle forze ribelli, si è poi consolidata a Tripoli dopo la caduta del regime di Gheddafi come missione addestrativa delle nuove forze di sicurezza locali.

Il degenerare della sicurezza in tutta la Libia e anche a Tripoli (dove dal 9 agosto il centro è presidiato da centinaia di militari) rende molto pericolose le condizioni di lavoro dei militari italiani. Basti pensare cosa accadrebbe se le reclute libiche cominciassero a imitare quelle afghane che in molte occasioni attaccano gli istruttori occidentali (che in Afghanistan sono però armati) o se i qaedisti prendessero di mira la base italiana che non ha neppure gli hesco-bastion a protezione contro le auto-bomba. Carenze negli apparati di difesa simili a quelli del consolato statunitense di Bengasi nel quale l’11 settembre scorso vennero uccisi dai qaedisti l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani.

Gli unici militari italiani armati in Libia sono oggi i carabinieri del reggimento “Tuscania” posti a protezione dell’ambasciata mentre gli istruttori restano disarmati in base all’accordo stipulato nel 2011 con il governo provvisorio libico dell’epoca (Consiglio Nazionale di Transizione) che non accettava la presenza di soldati stranieri armati. Una pretesa oggi inaccettabile di fronte all’escalation di attentati e violenze che caratterizza il Paese nordafricano ma, secondo fonti ben informate, modificare lo status delle truppe italiane risulta molto complicato a causa dell’evanescenza delle istituzioni libiche tra rimpasti di governo e rimozioni di ministri e generali.

Dieci giorni or sono si è insediato il nuovo ministro della Difesa, Abdallah al-Thani, che ha sostituito Mohammed al-Bargathi, sollevato dall'incarico in seguito a violenti scontri avvenuti a Tripoli in giugno. Pochi giorni prima il colonnello Abdulsalam al-Obaidi era stato nominato generale di divisione per meriti non meglio chiariti e posto alla testa delle forze armate al posto del generale Salem Gnaidi, ferito subito dopo la rimozione in un agguato. La Libia assomiglia sempre di più a una “repubblica delle banane” dove ministri e generali vengono nominati sull’onda delle pressioni tribali ma di fatto non controllano e non gestiscono nulla.

Per l’Italia, che dopo forti pressioni degli Stati Uniti ha assunto l’impegno di “fare di più” per stabilizzare la Libia, la sfida è molto impegnativa ma certo non potrà essere gestita lasciando i nostri militari disarmati alla mercé di banditi e terroristi. Molti Paesi hanno iniziato a trasferire le ambasciate alla periferia di Tripoli, in un’area che potrebbe diventare una sorta di “green zione” simile a quelle di Baghdad e Kabul. Un’area meglio difendibile da attacchi e attentati nella quale l’Italia sembra non avere ancora deciso se spostare o meno la sua rappresentanza diplomatica e i militari dell’operazione Cyrene.