Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Venerdì Santo a cura di Ermes Dovico
IL LATINO SERVE A TUTTO/XIV

L’arte del tradurre dal mondo greco a quello romano

Livio Andronico traduce l’Odissea omerica in latino componendo l’Odusia in versi saturni (il verso nazionale romano). Perché predilige quel poema all’Iliade? Perché la storia di Odisseo è analoga a quella di Enea (eroe romano per eccellenza).

Cultura 01_07_2018

La letteratura latina nasce tardi, solo nel 240 a. C. quando quella greca ha già conosciuto la sua fase d’oro due secoli prima nell’età di Pericle. Erodoto ci racconta le guerre persiane, mentre Sofocle ed Euripide compongono tragedie immortali. Insieme con la filosofia, l’arte greca segna in maniera indelebile il cammino futuro della cultura mondiale. L’apogeo dell’arte greca diventerà addirittura sinonimo stesso di classicità. Lo straordinario sviluppo delle arti quale mai si era conosciuto nelle civiltà precedenti diffonde in Grecia un ideale educativo ispirato alla Kalokagathia, cioè alla bellezza esteriore e alla nobiltà d’animo, alla formazione della mente combinata con l’esercizio fisico.

In Grecia nasceranno tutti i generi letterari che durante i secoli passeranno a Roma. Ne sono coscienti gli scrittori e gli intellettuali latini, lo sa bene Quintiliano quando nell’Institutio oratoria scrive: «satura tota nostra est» ovvero «il genere della satira è tutto nostro», è nato nel mondo romano, mentre tutti gli altri generi sono arrivati a Roma dal mondo greco.

Dalla nascita di Roma, avvenuta per la tradizione nel 753 a. C., dall’introduzione dell’alfabeto risalente probabilmente all’VIII secolo, per la durata di ben cinque secoli nell’Italia latina si sono diffusi testi orali e scritti non considerabili ancora come vera e propria letteratura. Sono documenti preletterari. Alcuni sono di carattere orale, come i carmina convivalia, canti celebrativi declamati durante i banchetti e accompagnati dal suono del flauto, occasione per ricordare le gesta degli avi, quindi in un certo senso gli antenati dell’epica latina. Egualmente di estrazione alta sono le laudationes, vere e proprie orazioni funebri intonate da un parente o da un magistrato per il defunto, oppure le neniae, lamenti funebri intonati dalle donne della famiglia del defunto, nel tempo affidati alle prefiche prezzolate.

Di carattere orale sono anche i componimenti di carattere popolare come i carmina triumphalia, intonati dai soldati nei confronti del comandante, non tanto con l’intento di celebrarne le gesta quanto di metterne in ridicolo i difetti. Popolari sono pure le composizioni teatrali preletterarie, come l’atellana e i fescennini.

Le prime testimonianze scritte sono, invece, di carattere religioso o giuridico-storico. I carmina saliaria sono intonati dai sacerdoti salii, nei mesi di marzo e di ottobre, in concomitanza rispettivamente con l’inizio e la fine delle campagne militari. La celebrazione avviene al ritmo dei canti e dei balli. I carmina arvalia, cantati dai dodici fratelli arvali, hanno, invece, un carattere apotropaico (tengono lontano il malocchio) e propiziatorio (per chiedere agli dei un buon raccolto). Gli annales compilati dai pontefici massimi riportano i nomi dei magistrati e degli avvenimenti fondamentali dell’anno. Pur rivestendo un ruolo di documento storico importante, non godono di grande attendibilità, perché spesso i pontefici modificano gli eventi per fini politici e propagandistici. I calendari dei giorni fasti e nefasti regolano, invece, l’attività pubblica stabilendo quando sia lecito intraprendere un’attività con il consenso degli dei. Fas è ciò che è lecito per gli dei, nefas è quanto non è consentito dal Cielo. In un certo senso se ius rappresenta il diritto umano, fas è il diritto divino.

Qual è il primo testo latino che può essere considerato letterario? Ovvero a quale opera si può assegnare il merito di aver dato avvio alla letteratura latina? Il primo testo letterario latino è una fabula, cioè un testo teatrale, composta da Livio Andronico per commemorare il primo anniversario della vittoria romana nella prima guerra punica. Nulla ci è rimasto di quell’atto di nascita della letteratura latina. Ci sono, invece, pervenuti alcuni titoli e pochi frammenti delle sue tragedie (ispirate al ciclo troiano) e delle commedie (che si rifanno forse alla commedia nuova greca).

Il nome Livio Andronico indica chiaramente che è uno schiavo liberato: il nomen «Livio» ricorda quel Livio Salinatore che lo ha condotto a Roma durante la guerra tarantina e che lo ha, poi, liberato; «Andronico» ha origini chiaramente greche.

Giunto a Roma, Livio Andronico svolge la funzione di gramaticus, ovvero maestro di scuola, che insegna il greco e le opere più significative del panorama letterario, traduce molti testi letterari greci avviando il passaggio di quella cultura a quella latina. Di certo, il suo ruolo culturale e letterario è riconosciuto fin da subito dai contemporanei tanto che nel 207 a. C., prima della battaglia del Metauro contro i Cartaginesi, i pontefici gli affidano il compito di comporre un inno propiziatorio. Dopo la vittoriosa battaglia il senato gli dona una casa sull’Aventino. Sarà Livio Andronico a fondare il collegium scribarum histrionumque, un’associazione di scrittori e di attori.

Livio Andronico traduce l’Odissea omerica in latino componendo l’Odusia in versi saturni (il verso nazionale romano). Perché predilige quel poema all’Iliade? Perché la storia di Odisseo è analoga a quella di Enea (eroe romano per eccellenza); inoltre, perché è ambientata in gran parte in mare (e nel terzo secolo Roma sta ottenendo la supremazia in mare a discapito della rivale Cartagine). Si deve, poi, pensare che l’Odissea valorizza la famiglia e la fedeltà della donna, temi particolarmente cari al mondo romano di quel tempo.

L’Odusia si presenta, quindi, come una traduzione dal greco al latino compiuta da un greco romanizzato. Ma tradurre non è affatto un’operazione semplice. Comporta il passaggio da una cultura ad un’altra, richiede la conoscenza dell’universo antropologico di partenza e di quello di arrivo. Ma non solo. Il traduttore deve possedere il vocabolario adeguato che permetta di passare, appunto trans ducere, cioè condurre dall’altra parte. E se una lingua non possedesse il lessico adeguato per comunicare concetti, immagini, costumi, sentimenti dell’altro popolo, cosa accadrebbe?

La paupertas linguae latinae del terzo secolo a. C. rende particolarmente complicata l’operazione di traduzione dal greco. Il popolo romano è fino al terzo secolo (e lo sarà ancora per tanto tempo) rozzo, grezzo, costituito da allevatori, da agricoltori, da combattenti. Solo tra il II e il I secolo a. C. grazie a circoli letterari come quello degli Scipioni e a intellettuali come Cicerone avverrà la commistione tra la cultura romana e quella greca che porterà ad esiti fecondi come l’apogeo della letteratura latina dall’età cesariana a quella dell’età dei Flavi: due secoli d’oro.

Livio Andronico deve anche passare dalla forma metrica greca (l’esametro) a quella latina (il saturnio) per connotare in senso nazionale il suo poema. Già dal primo verso lo scrittore deve intercettare un pubblico differente da quello greco abituato a sentir parlare di muse. Livio, invece, scrive: «virum, mihi, Camena, insece versutum». In traduzione: «O camena, cantami l’uomo molto astuto».  La camena (dal verbo latino cano) è la divinità romana del canto. Molto differente è, poi, la visione della divinità nel mondo greco e in quello romano. Nel terzo libro dell’Odissea Omero definisce Patroclo «il consigliere simile agli dei». I Greci presentano gli dei spesso come capricciosi, a loro attribuiscono il male del mondo. L’uomo greco che non può confidare in dei buoni e misericordiosi, che non riesce a sostenere l’abisso e l’orrore del limite e del male, tende a creare eroi magnanimi e buoni e, a detta di Charles Moeller, cerca nell’uomo ciò che non può trovare se non in Dio. Per questa ragione nel mondo greco è lecito il paragone tra un eroe e una divinità, paragone che è, invece, inaccettabile nel mondo romano. Livio Andronico traduce l’espressione omerica con il verso «Ibidemque vir summus adprimus Patroclus», ovvero «l’uomo più grande e di primo rango».