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L'Accademia dei Lincei è miope sul biotestamento

  • In un recente convegno sul tema, è stata sostenuta la necessità di riconoscere la libertà del paziente di decidere sulla propria morte.
  • Ma compito della medicina è quello di curare e, possibilmente, di guarire, al di là dell'esito fausto o infausto della terapia.
  • Nel nostro ordinamento non esiste alcun diritto di morire, ma soltanto un freno al potere coattivo dello Stato nell'obbligare una persona a curarsi.

Attualità 27_04_2012
Accademia dei Lincei

L’Accademia dei Lincei si chiama così perché gli scienziati che ne fanno parte dovrebbero scrutare i misteri dell’uomo e della natura con la vista acuta di una lince. Ma pare che sul tema dell’eutanasia tale vista si sia un poco appannata.

Di recente presso la prestigiosa Accademia si è svolto un convegno dal titolo “Testamento biologico e libertà di coscienza”. Se andiamo ad analizzare alcuni passaggi delle relazioni dei docenti intervenuti sorgono alcune perplessità e obiezioni.


Il giurista Pietro Rescigno, organizzatore del convegno, così appunta: “il mio orientamento è in senso liberale, dunque di consentire al paziente di esprimere, in termini di dignità, quello che è il suo autonomo sentire”. Di per sé l’affermazione non fa una piega. Salvo che non si voglia assolutizzare questo assunto. Non tutti i “nostri autonomi sentire” sono in accordo con la nostra dignità. Rispettare il valore intrinseco di una persona non significa rispettare sempre tutto ciò che chiede. Se uno pretendesse di ammazzare e rubare questo suo desiderio prima di ledere terzi, lederebbe la sua stessa dignità di uomo, perché appunto non è degno dell’uomo voler uccidere e rubare. E così anche la scelta di togliersi la vita contrasta con la dignità della persona, perché entra in conflitto con l’inclinazione alla vita che sgorga dalla natura umana. E’ un po’ come se si volesse distruggere un bellissimo quadro di Renoir che si possedesse: sarebbe un atto indegno del valore del quadro stesso, contrasterebbe con la preziosità del dipinto che invece esige rispetto e tutela. La volontà di morte non è quindi da assecondare, perché in contrasto con il valore altissimo della persona umana.


Ma mettiamo sotto la lente di ingrandimento anche alcuni passaggi dell’intervento di Paolo Zatti, ordinario di Diritto privato presso Università di Padova: “Chi decide oggi non è la persona, ma la medicina e le sue ambizioni. Per avvicinarsi a una pratica e a un diritto della dignità del morire ci deve essere come condizione il rispetto della morte, come momento, come conclusione della vita. La morte non è ancora sconfitta e il compito che si assegna all'umanità, alla medicina, è di contrastarla con ogni mezzo e senza demordere, conquistando anche piccoli lembi di vita, riducendo ostinatamente di anni, mesi, giorni o ore la zona dell’impotenza della medicina. La persona “spesso diventa il terreno di una contesa senza quartiere tra tecnologia e natura”. Infine sottolinea alcuni errori tipici di chi impedisce alla natura il suo naturale corso: “Quello di oscurare la differenza tra lasciar accadere e provocare; il non avvedersi che la morte è ormai sempre più non un fatto della natura, ma una decisione medica e il non vedere che senza un diritto di lasciar morire si monta un'infernale trappola in cui vengono reclusi insieme medico e paziente”.

Alcune osservazioni molto sintetiche. Compito della medicina è quello, se possibile, di guarire e sempre di curare, cioè di prendersi cura del paziente al di là dell’esito fausto o infausto delle terapie. Il rispetto dovuto dalla medicina è dunque a favore della vita non della morte, come invece pare ci voglia suggerire Zatti. Appare quindi evidente che scopo del medico non è quello di lasciare che la natura faccia il suo corso: se una persona ha un tumore, per le leggi di natura dovrebbe morire, ma questo non comporta che dobbiamo abbandonare il malato al suo destino perché così vuole madre natura. In questo senso – per riprendere la distinzione fatta da Zatti – il lasciar accadere (che per il docente è condotta moralmente lecita) si identifica nel provocare: se Tizio si tuffa in mare e non sa nuotare ed io con il suo consenso non gli presto soccorso, il mio atto omissivo concorrerà alla sua morte. Il lasciar morire è causa del morire: leggi eutanasia omissiva.


Inoltre la differenza tra “naturale uguale sempre buono” e “artificiale uguale sempre cattivo” è erronea. E’ evidente che l’intervento del medico per curare i pazienti costituisce sempre un atto artificiale, come buona parte degli atti che compie l’uomo, ma non per questo motivo è un atto malvagio.


In terzo luogo nelle parole di Zatti si gioca ambiguamente sul concetto di accanimento terapeutico. Sui temi cosiddetti di fine vita abbiamo accanimento terapeutico allorchè, in presenza di uno stato terminale della malattia, c’è una sproporzione tra mezzi utilizzati e risultato sperato. I criteri e gli indici per verificare tale sproporzione sono dei più vari: il tipo di cure, il quadro clinico del paziente, la sua risposta al dolore, il costo delle cure, etc. Il tutto deve essere messo in relazione con lo sperabile incremento di tempo vitale. Il rifiuto dell’accanimento terapeutico è legittimo rifiuto di cure inutili a vivere. Tenuto fermo però, come già detto, il requisito di essere in presenza di un paziente terminale: la parabola di vita si sta naturalmente completando. Al di fuori di tale circostanza occorre sempre far di tutto per strappare l’uomo alla morte, che non appare quindi come evento immediatamente inevitabile, ma solo possibile.


In merito poi al “diritto al morire” nel nostro ordinamento giuridico questo diritto non esiste. Se esistesse un “diritto alla morte”, il poliziotto che strappa a forza dal cornicione l’aspirante suicida incorrerebbe nel reato di violenza privata, che appunto sanziona chi impedisce ad un terzo di assumere una condotta legittima. Se esistesse il “diritto a morire” dovremmo abrogare l’art. 579 del Codice Penale che punisce l’omicidio del consenziente e l’art. 580 cp che considera reato l’aiuto al suicidio: se fosse un diritto cercare la morte perché punire chi collabora in quest’azione?


Qualcuno a questo punto potrebbe tirare in ballo l’art. 32 della Costituzione che permetterebbe di rifiutare qualsiasi trattamento medico, anche quelli salvavita. Ma l’art. 32 della Costituzione non legittima il rifiuto delle cure da parte del paziente anche nel caso in cui questo rifiuto portasse alla morte, ma – cosa ben diversa -  impone un alt al potere coattivo dello Stato nell’obbligare una persona a curarsi. Non esiste un diritto al rifiuto di cure salvavita, ma solo una facoltà di fatto non certo benedetta dalla legge. La legge tollera il suicidio perpetrato anche attraverso il rifiuto delle cure (fattispecie tra l’altro rarissima e presente perlopiù solo nella mente di stravaganti giuristi) e di certo non assegna a questa scelta lo status di diritto costituzionalmente garantito. Nella costituzione ci sono solo principi valoriali positivi: esiste il diritto alle cure, non il diritto alle non cure, cioè alla malattia e addirittura all’esito più infausto di queste, cioè la morte.