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SAN LORENZO

La vertigine sublime di intuire una Verità

Nel suo splendore, la volta stellata è solo il pallido riflesso di ciò che è l'uomo agli occhi di Dio. Una realtà che ci trascende e ci comprende.

Attualità 11_08_2011
Stelle

“Cosmos” in greco significa ordine. Anzi significa buon ordine, cioè disposizione verso il bene e il bello. Curioso che si applichi il concetto di ordine alla volta stellata che di primo acchito appare come una congerie di punti luminosi non legati da nessun disegno razionale. Eppure in queste notti estive – e non solo in quella di San Lorenzo dove il firmamento gioca a perdere qualche suo fuoco siderale – anche il cuore più ottuso mirando il cielo coglie immediatamente che, in quel nero che brilla intenso, palpita un che di maestoso e regale.

D’altronde nell’antica Creta il magistrato supremo dell’isola veniva chiamato Cosmo. Di fronte, anzi, sotto questa magnificenza notturna febbricitante di stelle le reazioni in genere sono di due specie, tra loro opposte. C’è chi afferma che si sente un nulla qualsiasi, nemmeno polvere di stelle, bensì solo pulviscolo insignificante schiacciato da questa buia immensità. “Com’e pesante questa notte! Pesante come il dolore umano!”. Mormora tra sé il Caligola di Camus nelle ultimissime battute della tragedia omonima. Eppure quella notte è irradiata da un “chiarore splendido e dolce di stelle”.

Ma queste non sono le stelle dell’ultimo verso della Divina Commedia, segno dell’amore di Dio, che dà senso, movimento a tutto: “l’amor che muove il sole e l’altre stelle”. Quella bellezza percepita da Caligola – sentore vago e nostalgico di un mistero altro da sé – diviene invece segno di ulteriore oppressione e solitudine. Altri invece, al pari di Dante, comprendono che quel cielo vibrante di luce è solo la sfavillante cornice di un quadro che è l’uomo. E il quadro vale più della cornice.

Se ciascuno di noi è ben più prezioso di tutto ciò che contiene l’intero universo, allora la volta stellata nel suo splendore è solo il pallido, il notturno riflesso di quello che è l’uomo agli occhi di Dio. Certo, in spiaggia come tra i monti forse coglieremo tutto questo in modo indistinto, confuso, quasi epidermico, eppure nello stesso tempo preciso, con nitore, proprio come quelle stelle che contempliamo: tenui ma nonostante questo ben visibili nell’oscurità della notte.

E’ la sensazione da vertigine che si chiama “sublime”: intuire una verità che ci trascende e che quindi non riusciamo a far completamente nostra. Cogliere ma non capire appieno. Ne fu preda anche Kant. Il celeberrimo epitaffio da lui vergato che sigilla la sua tomba così recita: “Il cielo stellato sopra di me la legge morale dentro di me”. Ovvio, è la bandiera del soggettivismo etico, ma nello stesso tempo è la prova che anche per il filosofo dei lumi nella bellezza delle stelle riverberava un Bellezza ben superiore.

Puntare gli occhi in alto dunque non solo ci eleva subito, ma ci fa percepire che in realtà e per paradosso siamo noi che da quelle stelle siamo osservati. Un silenzioso sguardo siderale ci contempla ogni giorno. E gli sguardi se intercettati possono provocare due reazioni. O imbarazzo e fastidio, e allora si abbassa il nostro di sguardo. Oppure si risponde, tenendo fissi gli occhi sul nostro interlocutore. Allora la notte sanlorenzina, guardandoci, forse sarà capace con il suo misterioso lucore di destare a più alti pensieri e a più profondi interrogativi le nostre sensibilità, spesso assopite dal quotidiano e in uno stato di letargia forzosa per le preoccupazioni degli affari di questo mondo.

E così quel luccicante firmamento ci bisbiglierà le leopardiane domande di sempre: “E quando miro nel cielo arder le stelle:/ Dico fra me pensando:/ A che tante facelle?/ Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ Infinito Seren? Che vuol dir questa/ Solitudine immensa? ed io che sono?”.