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FILIPPINE

La tragedia di Marawi, città in mano agli jihadisti

La battaglia per Marawi è iniziata il 23 maggio e non è finita più. Nell'isola di Mindanao, nel Sud delle Filippine: poche centinaia di jihadisti determinati, due mesi di scontro, centinaia di morti, centinaia di migliaia profughi interni. Basta una piccola minoranza fanatica di una minoranza bellicosa di una minoranza islamica per mettere in ginocchio un pezzo di paese.

Esteri 15_07_2017
Hapilon, leader jihadista

La battaglia per Marawi è iniziata il 23 maggio e non è finita più. La città dell’isola di Mindanao, Sud delle Filippine, è diventata una sorta di Mosul del Sudest asiatico, da quando è stata occupata da un piccolo esercito jihadista forte di circa 500 combattenti. Da allora, l’assedio di esercito e polizia è riuscito a liberare solo in parte la città. Il presidente Rodrigo Duterte è il più ottimista: prevede che la battaglia finisca entro due settimane. Secondo il generale Carlito Galvez, che comanda le operazioni in quel settore occidentale di Mindanao, occorreranno almeno altri due mesi. Secondo Mohagher Iqbal, portavoce e negoziatore del movimento indipendentista musulmano Moro, nemico dello Stato Islamico, gli jihadisti finiranno presto munizioni ed equipaggiamento, “rimarrà loro solo la volontà di combattere. Aver solo quella, in guerra, non ti porta lontano”, come dichiarava ieri al quotidiano Inquirer. Intanto però sono quasi due mesi di battaglia, 400mila profughi interni fuggiti dalle loro case e un numero di morti ancora da calcolare, ma nell’ordine delle centinaia.

Il tutto, appunto, per mezzo migliaio di jihadisti, forti della loro determinazione a morire, nel nome dell’instaurazione di un Califfato islamico anche nel sudest asiatico. Le Filippine sono agli antipodi del Medio Oriente, lontane dalle terre a cui di solito associamo il jihad e il terrorismo islamico. L’isola di Mindanao ha una popolazione mista, a maggioranza cristiana: 70% cristiani e 20% musulmani. Le regioni a maggioranza islamica sono secessioniste da decenni, ma nel 2014, con gli accordi del Bangsamoro (la regione di Mindanao a maggioranza musulmana), il Fronte di Liberazione Islamico Moro e il governo sono giunti a un trattato di pace. Un’ala scissionista del movimento, il Maute è allora passata dalla parte dello Stato Islamico, per continuare la lotta armata e ad essa si è unita anche parte di Abu Sayyaf, l’organizzazione jihadista che precedentemente era associata ad Al Qaeda nelle Filippine. La battaglia di Marawi è scoppiata, proprio come Mosul nel 2014, come risposta a un raid dell’esercito contro leader jihadista. In questo caso, è fallito il tentativo di arrestare Isnilon Hapilon, leader di Abu Sayyaf che ha giurato fedeltà al Califfato ed ora è considerato dai jihadisti filippini come l’emiro delle Filippine.

Attenzione a questi numeri: 20% di minoranza musulmana, poche centinaia di jihadisti determinati, due mesi di scontro, centinaia di morti (secondo le stime governative: 89 soldati, 39 civili, 379 terroristi), centinaia di migliaia profughi interni, una regione intera al collasso. In Iraq la battaglia di Mosul, combattuta da circa 75mila soldati e paramilitari per scacciare 6mila jihadisti ha comportato 9 mesi di guerriglia urbana e l’intera area è stata distrutta. In questo caso, su scala inferiore, la durata e le perdite sono proporzionate. Vuol dire che basta una piccola minoranza fanatica di una minoranza bellicosa di una minoranza islamica per mettere in ginocchio un pezzo di paese. E una volta che questa piccola minoranza riesce ad arroccarsi in un’area urbana, sloggiarla diventa difficilissimo. Comporta mesi di sofferenza e distruzione.

Le reazioni delle istituzioni sono ambivalenti. Rodrigo Duterte, il presidente eletto proprio perché duro con la criminalità, la droga e il terrorismo, sta usando il pugno di ferro. Non ha esitato a proclamare la legge marziale, a muovere l’esercito e a combattere lo scontro con metodi da guerra, con bombardamenti aerei e uso di armi pesanti. Tuttavia non rinuncia a cercare soluzioni politiche con rinunce drastiche. Ieri si è detto disposto a concedere piena autonomia, quasi indipendenza, alla regione islamica di Mindanao. Con la Legge Fondamentale sul Bangsamoro (Bbl) verrà istituita una nuova struttura di governo, che sostituirà l’esistente Regione autonoma nel Mindanao musulmano. Mohagher Iqbal, capo negoziatore del Milf per la pace, ha dichiarato all'Inquirer che la Commissione per la transizione del Bangsamoro è pronta a sottoscrivere la bozza della Bbl già il prossimo 17 luglio. Iqbal spera che il presidente Duterte mantenga la promessa di una “patria” per i Bangsamoro a Mindanao in tre anni.

La Conferenza Episcopale delle Filippine ha dedicato la sua plenaria quasi interamente alla questione Marawi. Secondo i vescovi, il terrorismo deve essere isolato (e considerato corpo estraneo) dall’islam di Mindanao. Nella dichiarazione del 10 luglio scorso, i vescovi “condannano il terrorismo nel modo più risoluto, così come hanno fatto i clerici islamici di Mindanao”. Perché i leader e i membri del gruppo Maute, “avendo giurato fedeltà all’Isis” avrebbero “contraddetto tutti i principi fondamentali dell’islam, catturando ostaggi e uccidendo o ferendo innocenti”. Gli esempi portati dalla Chiesa filippina riguardano dialogo e collaborazione spontanea fra la comunità musulmana e i profughi cristiani, spesso aiutati da connazionali di fede islamica. Ci sono anche diversi episodi di cristiani scampati al massacro, proprio perché aiutati da vicini di casa musulmani. “Chiunque abbia tramato per dividere i cristiani e i musulmani – dichiara monsignor Tagle, arcivescovo di Manila – con molta probabilità ora è arrabbiato. Non è riuscito nel suo intento. In realtà, ciò cui abbiamo assistito è una comunione”. Dialogo con la comunità musulmana sì, ma con i terroristi no. Sarebbe “ridicolo”, come ha avuto modo di dichiarare, il 30 giugno scorso, monsignor Edwin de la Pena, vescovo di Marawi. La cattedrale di Marawi è stata attaccata e data alle fiamme. I terroristi, oltre alla distruzione materiale, hanno anche rapito 15 fedeli che hanno trovato al suo interno e il vicario episcopale Terestito Suganob. Secondo il vescovo, che avrebbe potuto essere fra gli ostaggi, la risposta della Chiesa di fronte alla guerra in Mindanao, è sempre stata il dialogo, ma “si devono scegliere le persone con cui dialogare”, coloro che cadono vittime del terrorismo sono “tutte le persone aperte al dialogo con noi”.