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MAGISTRATURA

La Corte di Cassazione fa fuori la famiglia

Una sentenza della Corte riconosce la convivenza, distorcendo la Costituzione e teorizzando l'etica democratica: vale la maggioranza.

Attualità 26_09_2011
corte di cassazione

Ci risiamo. Ancora una volta un giudice gioca a scompigliare le nostre leggi. Casi eccellenti li abbiamo avuti con la legge 40 sulla fecondazione artificiale e sull’eutanasia (Eluana e Welby per fare due nomi). Ora è il turno del diritto di famiglia. Veniamo ai fatti. Una coppia divorzia. Lei successivamente va a convivere. L’ex marito a quel punto decide di non darle più l’assegno di mantenimento. Gli animi si scaldano e vanno in tribunale, finchè la lite approda in Cassazione che qualche giorno fa dà ragione al marito. Hanno fatto bene i giudici a negare l’assegno all’ex moglie perché ormai convivente?


Procediamo per gradi. Il Codice Civile all’art. 156 ci informa che l’assegno di mantenimento può essere dato al coniuge che non è colpevole della separazione e “qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. Dunque se l’ex coniuge ha un’attività commerciale ben avviata, vince alla lotteria, riceve una cospicua eredità etc. e dimostriamo così che ha redditi propri, l’ex coniuge non ha più diritto all’assegno.


Andare a convivere può significare che il portafoglio non piange più? Dipende dai casi. Non è certo che la convivenza comporti automaticamente un tenore di vita che non necessita più dell’assegno divorzile (Cassazione n. 23968/2010). Occorre vagliare caso per caso. Situazione differente se l’ex coniuge che percepiva l’assegno si risposa: in questa fattispecie il diritto all’assegno cessa automaticamente. Perché? Chi si sposa assume degli obblighi giuridici tra cui “l’assistenza materiale, gli alimenti”, il dovere di “contribuire ai bisogni della famiglia” e di “mantenere la prole”.

Dunque se uno si sposa, o si ri-sposa, significa che può soddisfare a questi oneri e dunque il diritto presume che abbia “adeguati redditi propri”. Chi convive non si assume questi vincoli giuridici e perciò la presunzione di prima non vale. E dunque come si diceva innanzi bisogna indagare caso per caso per capire come stanno le cose, al di là del fatto che l’ex coniuge conviva o meno.

A questa stregua potremmo pensare che la Cassazione abbia negato l’assegno perché ha scoperto che l’ex moglie ormai convivente abbia comunque in tasca un bel po’ di soldini e quindi non necessita più dell’aiuto dell’ex marito. Non è proprio così.


La Cassazione è d’accordo anch’essa che convivenza non significa di per sé buon reddito di ciascun convivente, ma che è necessario esaminare ogni situazione. Ma cosa per la Cassazione occorre verificare ogni volta? Il reddito del convivente ex coniuge? No, occorre verificare che ci sia una famiglia di fatto, cioè una stabilità e continuità di vita a due arricchita da un progetto comune. Così la stessa Cassazione: “ove tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)… la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto”. Quindi se provo che c’è stabilità, continuità e progettualità comune è certo che ogni convivente ha redditi più che sufficienti per vedersi negato l’assegno. Ma, aggiungiamo noi, queste caratteristiche invece non sono probabanti al 100% del fatto che il tenore di vita dei due è buono.


E poi il giochino della Corte di Cassazione è astuto. Dire “relazione stabile, duratura e finalizzata ad un progetto di vita” significa dire in soldoni “convivenza”. Ergo ciò che si dovrà provare è se esiste una convivenza e, se ci fosse, ecco che si tratterà la convivenza come un secondo matrimonio civile che di suo impedisce la corresponsione dell’assegno di mantenimento. Ad onor del vero la Cassazione prudentemente non arriva ad affermare questo, anzi lo rigetta, ma la conclusione logica del suo discorso non può che essere una equiparazione tra convivenza e matrimonio civile. Infine con buona probabilità a breve si arriverà a sostenere: “Perché obbligare il giudice ogni volta a verificare se c’è un rapporto di convivenza? Più facile sarebbe riconoscere giuridicamente per legge una volta per tutte le coppie di fatto”. E il cerchio si chiude.


Esaminato il caso sotto l’aspetto più prettamente tecnico, proviamo a tratteggiare qualche altro spunto critico di più ampio respiro. In primo luogo è chiarissimo che per la Cassazione non c’è più, come riconosce la Costituzione all’art. 29, un unico modello di famiglia, cioè quello fondato sul matrimonio, ma anche le famiglie di fatto. Come arriva ad asserire ciò? Attraverso due strade. Una di carattere normativo: “si rinviene – così dicono i giudici - seppur indirettamente, nella stessa Carta Costituzionale una possibile garanzia per la famiglia di fatto, quale formazione sociale in cui si svolge la personalità dell'individuo, ai sensi dell'art. 2 Cost.” Insomma sarebbe la stessa Costituzione a tutelare la convivenza.


Ma il riferimento è erroneo. Primo perché il fenomeno della convivenza era pressoché sconosciuto nel ’47, anno di promulgazione della Costituzione. Come si faceva a tutelare qualcosa che non c’era? Secondo perchè l’art. 2 dice altro rispetto all’interpretazione della Cassazione, cioè stabilisce che i diritti del singolo non evaporano se questi diviene membro di un’associazione, di una fondazione, di una società, etc. Inoltre considerare le coppie di fatto come “formazioni sociali” è come asserire che la Divina Commedia è un ottimo saggio di giornalismo. Le espressioni linguistiche hanno un loro significato proprio, altrimenti sono “parole in libertà” come direbbero i futuristi. Ma ammesso e non concesso che la Costituzione intenda considerare le coppie di fatto come “formazioni sociali”, l’art. 2 esplicitamente va a tutelare non le formazioni sociali (le coppie di fatto), ma i diritti dei soggetti che vivono in queste formazioni sociali, e non perché conviventi ma perché persone.


Infine la Costituzione laddove vuole tutelare un istituto lo indica espressamente, non lascia spazio ad ambiguità, a letture “indirette” come afferma la corte. Il fatto che la Costituzione abbia assegnato uno specifico articolo alla famiglia fondata sul matrimonio e il fatto che non esista uno per la convivenza sta a significare che lo Stato italiano è indifferente al fenomeno. Non tutte le relazioni umane – anche se affettivamente importanti – devono ricevere l’imprimatur statale. L’amicizia è sicuramente fenomeno sociale diffuso e considerato dai più importante, ma non per questo lo Stato ci deve metter becco.


Quest’ultima argomentazione ci traghetta ad un’altra considerazione sul perché la Cassazione consideri la convivenza come un’altra e nuova tipologia di famiglia. Nella sentenza emerge che giudici si arrendono al fatto che è la storia a stabilire cosa è giuridico e cosa non lo è. Una volta la convivenza era reato – così appuntano i magistrati – poi venne considerata in modo neutro ed oggi infine il percepito comune è addirittura benevolo. E’ l’etica fenomenologica e democratica: se un fenomeno è diffuso da tempo e il giudizio della massa è favorevole, pregasi il diritto adeguare le sue norme ai fatti ed all’opinione della maggioranza.


Ma il diritto non deve tutelare la convivenza (i conviventi, intesi come singoli soggetti giuridici, invece sì) perché lo Stato ha l’obbligo di disciplinare giuridicamente solo quei fenomeni sociali che incidono significativamente sul bene comune. Il matrimonio rientra appieno in questa categoria, per tutti i diritti e doveri che esso comporta. La convivenza non può essere riconosciuta giuridicamente perché di per sé legame precario – quindi temporaneo e fragile – e privo per volontà degli stessi conviventi di obblighi formali così importanti che hanno un riflesso giuridico anche sulla collettività tutta intera.

Se ci sono doveri e responsabilità all’interno di una coppia di fatto esistono solo a livello privato. Non così per gli sposi i quali si assumono alcune responsabilità particolarmente importanti davanti a tutta la società. Questo è tanto vero che nella ventina e più di disegni e progetti di legge per riconoscere giuridicamente le coppie di fatto c’è una bella lista di diritti per i conviventi, diritti scippati agli sposi, ma di doveri giuridici non c’è traccia. In breve è come esigere di entrare allo stadio ma non voler pagare il biglietto.