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CRISI TAIWAN

La Cina gioca alla guerra, Occidente messo alla prova

Le ripetute incursioni aeree di questi giorni della Cina nello spazio aereo di Taiwan sono il segnale di una pericolosa escalation militare che coinvolge tutti i paesi della regione e gli Stati Uniti. Se una guerra totale tra Cina e Taiwan è al momento improbabile, il rischio di operazioni lampo cinesi su isole controllate da Taiwan è invece un pericolo reale, per saggiare se gli Stati Uniti e l'Occidente sono disposti a combattere per Taiwan.

Esteri 04_10_2021 English Español

L'Amministrazione Biden si è detta "molto preoccupata" per le "provocazioni militari" della Cina nei confronti di Taiwan, ritenute "destabilizzanti per la pace e la stabilità nella regione". Il Dipartimento di Stato americano ha esortato ieri Pechino a “cessare le pressioni militari, diplomatiche, economiche e di coercizione nei confronti di Taiwan" ribadendo "l'impegno incrollabile" di Washington a fianco di Taipei.

L’esplicito comunicato di Washington costituisce la risposta alle gravi e reiterate provocazioni militari cinesi attuate inviando un numero crescente di aerei da combattimenti a violare la “zona di identificazione per la difesa aerea” dell’Isola-stato, una sorta di linea rossa il cui superamento mette in allarme l’aeronautica e la difesa antiaerea di Taiwan.
Nei primi tre giorni di ottobre prima 25, 38 e poi addirittura 39 velivoli cinesi sono penetrati nella zona di identificazione: una dimostrazione di forza che ha coinvolto i velivoli da combattimento più moderni dell’Aeronautica di Pechino come i bombardieri H-6 e i caccia Su-30, J-16 e J-17 oltre ad aerei radar KJ-200 e KJ-500 e ai caccia della Marina J-15.
Un’escalation evidente se si considera che il 23 settembre simili violazioni erano state affidate a 24 aerei militari di Pechino, motivate col transito della fregata britannica Richmond nello Stretto di Formosa che separa le due Cine dove in agosto erano transitate due navi militari statunitensi.
Il 30 settembre il portavoce del ministero della Difesa cinese, Wu Qian, ha esortato il Regno Unito a rafforzare la cooperazione con la Cina criticando il progressivo rafforzamento della presenza della Royal Navy nell'Indo-Pacifico dopo l'uscita di Londra dall'Unione Europea.

In agosto era stato il gruppo navale guidato dalla portaerei Queen Elizabeth II, con a bordo caccia F-35 britannici e dei marines statunitensi, a penetrare nel Mar Cinese Meridionale pur non spingendosi così a ridosso delle coste cinesi e degli arcipelaghi rivendicati da Pechino.
Lo scorso 17 settembre, l'ammiraglio Tony Radakin aveva dichiarato che lo Stretto di Formosa è "parte integrante dell'Indo-pacifico libero e aperto", rendendo conseguentemente nota la decisione di Londra di stazionare unità di pattugliamento marittimo nell'area "almeno per i prossimi cinque anni", a sostegno dello sforzo di contenimento della Cina intrapreso dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi alleati nella regione (Giappone, India e Australia in primis).

Pechino ha da tempo evidenziato la volontà di rispondere con una crescente mole di provocazioni militari a ogni passaggio navale britannico o statunitense nelle acque che il regime comunista considera parte integrante del suo territorio nazionale.
Nonostante le cautele con cui tutti gli stati del blocco occidentale esprimono il loro sostegno a Taiwan pur mantenendo importanti relazioni commerciali con Pechino, tutti i contendenti sembrano voler innalzare l’escalation intorno a Taiwan e agli arcipelaghi contesi del Mar Cinese Meridionale.

Taiwan dispone di poderose forze armate e di un’industria della difesa ad alta tecnologia sempre più autonoma dagli Stati Uniti nello sviluppo e produzione di sistemi d’arma avanzati.
Certo, in caso di guerra Pechino potrebbe schierare un numero di forze aeree, missilistiche e navali molto superiore a quelle di Taipei e il confronto tra la spesa militare e il numero di militari delle due nazioni è impressionante: 250 miliardi di dollari spesi quest’anno da Pechino contro 16 di Taiwan e 2 milioni di soldati contro 170 mila taiwanesi cui si aggiungerebbero 1,5 milioni di riservisti. 

Diversi analisti ritengono che un assalto militare all’isola-stato verrebbe anticipato da un pesante cyber-attack teso a paralizzare i centri di comando e controllo taiwanesi e da un altrettanto massiccio bombardamento con missili balistici a corto raggio schierati in gran numero (tra i 600 e i mille a seconda delle stime) nelle basi della provincia di Fujan, situata di fronte all’isola. Armi dotate di testate convenzionali ad alto esplosivo che avrebbero il compito di devastare basi aeree e navali, difese aeree, comandi e centri logistici delle forze armate taiwanesi per “ammorbidirle” e preparare l’invasione.

Difficile però oggi ritenere possibile un simile scenario, che testerebbe la disponibilità o meno degli Stati Uniti e dei loro alleati ad affrontare un conflitto totale con la Cina, potenza nucleare. Del resto dal 1980, quando è scaduto il Trattato di Mutua Difesa tra USA e Taiwan in seguito all’apertura di relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino, è stato sottoscritto il Taiwan Relations Act che impegna gli USA a fornire assistenza militare diretta in caso di attacco cinese ma non prevede più in modo automatico l’ingresso in guerra degli americani al fianco dei taiwanesi.
Del resto Pechino punta a inglobare, non certo a distruggere, la “provincia ribelle” la cui florida economia ingigantirebbe ulteriormente il peso specifico globale della Cina.

In termini strategici, un assalto cinese dal cielo e dal mare alla Cina Nazionalista (fondata nel 1949 dal generale Chiang Kai-shek in fuga col suo esercito dalla Cina continentale in mano ai comunisti di Mao Zedong) diventerebbe plausibile solo se a Pechino prevalesse l’impressione che a Washington nessuno sia pronto a “morire per Taiwan”. 

Oltre a godere di nutrite forniture militari statunitensi, Taiwan è protetta soprattutto dal mare. Per conquistare l’isola Pechino dovrebbe infatti trasportare e sbarcare centinaia di migliaia di soldati attraverso i 140/180 chilometri che separano l’isola dalla costa continentale. Un gran numero di truppe necessario ad affrontare la strenua difesa degli isolani, che dovrebbe peraltro ricevere sempre via mare un’immensa mole di rifornimenti per sostenere l’offensiva.
Un’impresa ardua non solo per le ottime capacità navali taiwanesi e per il supporto che verrebbe probabilmente offerto loro dalla flotta statunitense e da altre nazioni alleate, ma anche perché le truppe cinesi non hanno di fatto alcuna esperienza bellica (neppure quelle taiwanesi) e perché Pechino dovrebbe mettere a rischio in acque ristrette buona parte della sua nuova flotta e le molte navi mercantili “militarizzate” proprio per poter imbarcare truppe e mezzi in vista di grandi operazioni di sbarco.

Se risulta quindi improbabile una guerra totale tra Cina e Taiwan, la costante escalation della tensione potrebbe rendere più concretizzabile una limitata azione di forza condotta da Pechino contro l’isola di Kinmen (o Quemoy) e l’arcipelago delle Matsu, situate rispettivamente alle imboccature sud e nord dello Stretto di Formosa, a ridosso della costa continentale cinese, ma territori taiwanesi presidiati da guarnigioni militari agguerrite e schierate su posizioni difensive ben protette.
Tali isole, così vicine alle coste cinesi da poter essere colpite anche dal fuoco dell’artiglieria leggera (Kinmen dista appena due chilometri e la più vicina delle Matsu circa 10), sono potenzialmente attaccabili dalla Cina senza sforzi bellici troppo impegnativi e con un assalto lampo che potrebbe coinvolgere anche le isole Pescadores, territorio taiwanese a 150 chilometri dalla Cina e a 30 da Taiwan. 

Aggressioni militari che in ogni caso provocherebbero durissime reazioni internazionali, soprattutto negli Stati Uniti, ma permetterebbe a Pechino di saggiare la disponibilità dei rivali occidentali a combattere per Taiwan.
Del resto negli anni ’50 Washington annunciò che avrebbe impiegato anche armi nucleari contro la Cina in caso di attacco maoista a Kinmen e Matsu, isole che vennero spesso citate anche da John Kennedy e Richard Nixon che si affrontarono nella campagna presidenziale del 1960 esprimendo entrambi la disponibilità a far scendere in guerra gli Stati Uniti per difenderle dall’aggressione comunista.

Come ai tempi della guerra fredda con l’Unione Sovietica anche oggi gli equilibri tra guerra e pace si giocano sul peso e la credibilità della deterrenza anche se, rispetto al passato, è lecito chiedersi se USA e Occidente siano ancora in grado di esprimerla in modo credibile.