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UNIVERSITA'

Italia ignorante: abbiamo meno laureati della media Ue

Poco lusinghiero l'ultimo rapporto Anvur sullo stato dell'università italiana. Aumenta la quota di laureati in rapporto alla popolazione, ma siamo sempre ben al di sotto della media europea. In compenso calano le immatricolazioni. 

Educazione 03_04_2014
Università

Il 18 marzo l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, ANVUR, ha presentato al ministro dell’istruzione Stefania Giannini il “Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca”. Il documento riporta tutti i dati disponibili relativi alla didattica universitaria e alla ricerca, inclusi le risorse economiche, il rapporto tra iscritti e laureati, la qualità della produzione scientifica. Contiene inoltre il primo bilancio della riforma che 15 anni fa, nel 1999, ha trasformato gli atenei italiani introducendo il cosiddetto 3+2, vale a dire, invece della laurea a ciclo unico (mantenuta per Medicina, Farmacia, Veterinaria e Odontoiatria), due cicli distinti: una laurea triennale e una di specializzazione, biennale, detta specialistica o magistrale.

Ne emerge un quadro per molti aspetti poco lusinghiero nonostante alcuni passi avanti. Tra questi ultimi figura il notevole incremento verificatosi tra il 1993 e il 2012 della quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro: dal 5,5% al 12,7%. Nello stesso periodo nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni si è passati addirittura dal 7,1 al 22,3%. Tuttavia l’Italia resta uno dei paesi industrializzati con la più bassa quota di laureati, anche limitando il confronto ai giovani: quasi la metà rispetto alla Francia che registra una quota del 42,9% e meno della metà rispetto alla Gran Bretagna che conta 45 laureati ogni cento abitanti di età tra i 25 e i 34 anni. Inoltre nel 2012 l’Unione Europea ha raggiunto la media del 35,3% e quindi resta costante nel tempo lo scarto dell’Italia: infatti nel 2000 le quote dei laureati dell’Italia e dell’Unione Europea erano rispettivamente del 10,6 e 22,9% e nel 2006 del 17,3 e 29,1%.

Per di più negli ultimi anni si è verificato un calo nelle immatricolazioni. Tra gli anni accademici 2000-2001 e 2003-2004 i nuovi iscritti erano stati 54.000, ma da allora al 2012-2013 gli immatricolati si sono ridotti di 69.000 unità, ovvero del 20,4%. Il massimo degli iscritti si è avuto nel 2005-2006, con 1.824.000 di studenti, numero sceso a 1.751.000 nel 2011-2012, con un calo concentrato negli atenei del Mezzogiorno e in misura minore in quelli del Centro.

Un dato particolarmente negativo è quello del successo negli studi universitari. In Italia infatti completano il ciclo di studi e conseguono un titolo accademico soltanto 55 studenti su 100. Anche sotto questo profilo è costante ed elevato il nostro divario rispetto all’Unione Europea dove il tasso di successo è del 70%.

Più in particolare, quasi il 40% degli studenti che intraprendono un corso accademico di primo livello non conclude gli studi. Dopo il primo anno circa il 15% degli studenti abbandona gli studi e altrettanti cambiano corso di laurea. Soltanto un terzo degli studenti iscritti ai corsi triennali e il 40% di quelli iscritti ai corsi magistrali concludono gli studi entro i tempi previsti. Il tempo medio per il conseguimento della laurea triennale, che raggruppa la gran parte dei laureati, è pari a 5,1 anni, il 70% in più rispetto alla durata legale dei corsi. Per le lauree biennali, il tempo in media è di 2,8 anni e per le lauree a ciclo unico di sei anni è di 7,4 anni in media. In altri termini, il 42% degli iscritti ai corsi triennali e il 32 % di quelli iscritti ai corsi magistrali sono fuori corso. Nei corsi triennali, gli studenti ancora iscritti dopo otto anni dall’immatricolazione sono l’8,9% e dopo nove anni il 6,6%.

Il maggior numero di fuoricorso nell’anno accademico 2011-2012 si è registrato alla facoltà di Scienza della formazione, con il 51,2%, seguita da Sociologia con il 51%. Quello più basso si è avuto a Medicina e chirurgia (33,4%), preceduta da Scienze statistiche (33,6).

"I dati sulla dispersione e sul tempo medio per il conseguimento della laurea – commenta il rapporto ANVUR – mostrano una bassa produttività del sistema, con costi diretti e indiretti di difficile quantificazione, ma sicuramente elevati”: sia in termini di ritardo nell’ingresso del mondo del lavoro sia in termini di oneri di gestione delle strutture accademiche (la spesa annua per studente è di poco inferiore ai 10.000 dollari, molto meno che in altri paesi – si pensi agli oltre 25.000 dollari degli USA e ai 22.000 della Svizzera – ma pur sempre un ammontare che rende i fuoricorso un onere ingente.

Altro tasto dolente è la ricerca, benché la valutazione della qualità dei ricercatori italiani, almeno in base ai parametri utilizzati, sia buona. La spesa dell’Italia in questo settore è infatti una delle più basse tra i paesi industrializzati. Il settore privato vi contribuisce con una quota pari alla metà della media europea e le risorse pubbliche non sopperiscono al ritardo – che l’ANVUR definisce “vistoso” – poiché risultano anch’esse inferiori alla media dell’UE. L’Italia investe in ricerca lo 0,52% del PIL, 0,18 punti in meno rispetto ai paesi OCSE: il risultato è un numero inferiore di ricercatori e un minore potenziale di innovazione.

Una nuova riforma, nel 2010, ha soppresso le facoltà e ha attribuito ai dipartimenti la responsabilità della didattica oltre che della ricerca. Attuata a partire dallo scorso anno accademico, è presto per valutarne gli effetti.