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RIARMO NUCLEARE

Iran o Usa. Chi soffia sui venti di guerra nel Golfo?

Il 27 giugno l'Iran potrebbe riprendere la sua corsa al nucleare mentre gli Usa pretendono di imporre agli alleati nel Golfo ed europei un embargo petrolifero e commerciale nei confronti di Teheran. Ma c'è chi si sfila dalle imposizioni statunitensi alle "provocazioni" iraniane che possono avere conseguenze serie soprattutto per lo Stato ebraico. 

Esteri 21_06_2019

Il 27 giugno l'Iran potrebbe riprendere la sua corsa al nucleare, o quanto meno aumentare unilateralmente i limiti imposti dall’accordo del 2015 in termini di arricchimento e di quantità di uranio stoccate.

Lo ha annunciato lunedì il portavoce dell'Organizzazione dell'energia atomica iraniana (Aoei), Behrouz Kamalvandi e l’iniziativa costituisce innanzitutto un monito all’Europa, che resta fedele all’accordo ma è incapace di fermare gli Usa che hanno denunciato l’intesa faticosamente raggiunta e pretendono di imporre agli alleati (europei inclusi) un embargo petrolifero e commerciale nei confronti di Teheran.

Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha già avvertito che in caso di ritiro iraniano dall’accordo dovranno essere adottate sanzioni immediate mentre i firmatari europei (Germania, Francia e Gran Bretagna) hanno chiesto a Teheran di non violare l'accordo, che tutti gli organismi internazionali ritengono l‘Iran abbia finora scrupolosamente rispettato.

La crisi in atto del resto non nasce da violazioni da parte di Teheran ma dalla denuncia dell’accordo da parte degli Usa appoggiati da sauditi, emiratini ed israeliani. Paesi che ufficialmente sostengono che l’Iran potrebbe aggirare l’accordo in base al quale rinuncia al nucleare a uso militare, dotandosi comunque di bombe atomiche, ma che in realtà puntano a strangolare l’economia iraniana per rovesciare il regime degli ayatollah.

Meglio quindi non dare troppo credito alla “narrativa” sulle provocazioni iraniane e le responsabilità dei pasdaran dietro gli strani attacchi alle petroliere verificatisi in maggio in un porto degli Emirati Arabi Uniti e la scorsa settimana a est dello Stretto di Hormuz.

Gli Usa, che continuano a rafforzare la già abbondante presenza militare nel Golfo Persico, si dicono certi delle responsabilità iraniane e con loro i britannici ma molti analisti indipendenti e altri Stati rimangono scettici. In Europa francesi e tedeschi non sembrano credere ai report dell’intelligence anglo-americana.

In Giappone il ministro della Difesa, Takeshi Iwaya, ha reso noto che non invierà forze militari nel Golfo per rispondere a quelle che Washington definisce “provocazioni iraniane”. “Il governo giapponese non ritiene necessario dover spedire personale delle Forze di autodifesa nel golfo dell'man in risposta agli attacchi delle petroliere della settimana scorsa, una delle quelli operata da un armatore nipponico” ha detto Iwaya.

A Mosca il vice ministro degli Esteri russo Serghiei Riabkov ha dichiarato che “da tempo siamo testimoni dei continui tentativi degli Stati Uniti di aumentare la pressione politica, psicologica, economica e militare sull' Iran. Penso che queste azioni siano piuttosto provocatorie e non possano essere considerate in nessun altro modo che come una politica deliberata per fomentare una guerra".

Certo l’Iran, che dispone dei mezzi navali e subacquei (sommergibili, minisottomarini, incursori, barchini e mine) per attaccare petroliere e per bloccare lo Stretto di Hormuz paralizzandone il traffico, ha sempre respinto le accuse.

“Se dovesse deciderlo, l’Iran potrebbe apertamente e completamente ostacolare le esportazioni di petrolio dal Golfo Persico, e per farlo non avrebbe bisogno di alcun inganno o segretezza" ha detto lunedì il capo di stato maggiore delle forze armate, generale Mohammad Bagheri.

Nell’attuale contesto l’Iran non avrebbe alcun motivo logico per cercare un casus belli colpendo petroliere in transito, a meno che non intenda mostrare i muscoli e le sue potenzialità offensive pur rischiando gli effetti di un devastante attacco statunitense. Non si può però neppure escludere che gli attacchi alle petroliere siano stati effettuati dagli avversari di Teheran per addossarne la colpa all’Iran e aumentarne l’isolamento internazionale.

Dopo le “pistole fumanti” sulle armi di distruzione di massa attribuite a Saddam Hussein nel 2003 e dopo il Datagate non pare saggio prendere per oro colato la propaganda di Washington e Londra, pronte ad assumere “tutti i provvedimenti” necessari per garantire la sicurezza della navigazione della regione prendendo in considerazione "tutte le opzioni disponibili" in caso l'Iran non rispetti gli impegni assunti nell'ambito dell'accordo sul nucleare.

Il presidente iraniano, Hassan Rohani, ha dichiarato che "l'Iran non vuole entrare in guerra con nessun Paese" ma l'8 maggio scorso, un anno dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall'intesa, aveva dato ai Paesi firmatari (Regno Unito, Francia, Germania, Cina e Russia) 60 giorni per attuare le loro promesse in favore della stremata economia iraniana, pena la rottura anche da parte sua dell’accordo.

L’incapacità della comunità internazionale di fermare le pressioni degli Usa e dei suoi alleati è quindi la principale causa dell’instabilità nella regione e per queste Teheran minaccia di superare dal 27 giugno il limite per l'arricchimento (attualmente al 3,67%) e la produzione dell'uranio (l’accordo prevede riserve non superiori ai 202,8 chili) al fine di soddisfare le esigenze di carburante per la centrale nucleare di Busher portando l’arricchimento al 5% e addirittura al 20% per un reattore di ricerca scientifica.

L’iniziativa unilaterale statunitense contro l’Iran rischia di provocare conseguenze destabilizzanti gravissime. Rafforzerà la convinzione di Teheran che solo dotandosi di armi atomiche, come la Corea del Nord, si potrà bilanciare l’arsenale nucleare israeliano e scoraggiare ogni rischio di attacco.

Un simile sviluppo sarebbe inaccettabile per lo Stato ebraico, che per le sue ridotte dimensioni verrebbe cancellato anche da un solo piccolo ordigno atomico, e inoltre determinerebbe la corsa all’atomica in tutto il Medio Oriente.

Meglio poi non dimenticare che un conflitto o una prolungata alta tensione nel Golfo con la chiusura di Hormuz e il rallentamento o lo stop all’export di greggio penalizzerebbero l’economia mondiale ma solo in misura limitata Gran Bretagna e Stati Uniti, grandi produttori ed esportatori di petrolio.