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L'INTERVISTA

Incompreso perchè Santo. Ecco chi era davvero Paolo VI

«Sull'Humanae vitae non fece mai un passo indietro e fu sostenuto e confortato dai santi di allora: Padre Pio e Giovanni Paolo II». E poi: «Agli assalti contro la liturgia rispose riaffermando con forza la dottrina e la fede integrale nell'Eucaristia». Ancora: «Nonostante tutte le insidie del Concilio Vaticano II, guidò costantemente la Chiesa verso una sola e unica meta: Gesù Cristo». Oggi la Chiesa proclama Santo Paolo VI, liberando questo Pontefice da oltre mezzo secolo di strumentalizzazioni. Il Papa del Concilio Vaticano II, fu un uomo semplicemente e follemente innamorato di Gesù Cristo. Padre Sicari, il più noto agiografo italiano, ci racconta Paolo VI.

CHIESA, UN SOLO AMORE, UN SOLO ANNUNCIO: GESU' CRISTO!, di Paolo VI

MIRACOLO DI PAOLO VI: MONITO PER I SINGOLI E PER LA CHIESA, di B. Frigerio

Attualità 14_10_2018
PAOLO VI

Non un modernista o un conservatore, non un comunista né un democristiano. Non fu nemmeno il Papa di questa o di quella corrente ideologica. Giovanni Battista Montini fu “semplicemente” un Santo. E come tale viene oggi proclamato durante la cerimonia di canonizzazione in San Pietro. E' la "sua" Santa Madre Chiesa, alla fine, a liberarlo una volta per tutte dai pregiudizi e dalle strumentalizzazioni di oltre mezzo secolo di storia. Ed è proprio la sua amata Sposa che gli restituisce la verità, anche su questa terra. Paolo VI oggi è chiamato Santo perchè fu un uomo solamente e follemente innamorato di Gesù Cristo. «Ricordate: questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra e per tutta la fila dei secoli. Ricordate e meditate: il Papa è venuto qua fra voi, e ha gridato: Gesù Cristo!». Questo forte grido, che Montini pronunciò dagli estremi confini della terra, durante uno dei suoi incessanti viaggi apostolici, fu lo stesso grido che rieccheggiò nel suo cuore per tutta la vita. E, forse, fu proprio questo grido - ovvero questa sua radicale appartenenza solo a Dio - che costò a Paolo VI la completa solitudine e la totale incomprensione, specialmente alla fine del suo pontificato. I feroci attacchi ed il disprezzo che dovette sopportare per la pubblicazione dell'Enciclica Humanae vitae ne sono solo un esempio. Tanto che quando morirà, il grande teologo Hans Urs von Balthasar lo ricorderà appassionatamente come: «Il Dileggiato del Vaticano», nella cui figura «emerse con tutta forza l’immagine del Signore Crocifisso».

E’ questa, a grandi linee, l’immagine che esce da “Paolo VI. Il papa del dialogo e del perdono”, il ritratto che il più noto agiografo italiano, padre Antonio Maria Sicari, ha tracciato di lui. Ed è proprio a padre Sicari che abbiamo chiesto di raccontarci, con confidenza, questo nuovo Santo che la Chiesa regala al popolo di Dio.

Mons.  J. Magee, segretario di Paolo VI, lo definì il Papa del Perdono. Sosteneva, infatti, che la prima e la più evidente virtù di Papa Montini, fosse quella di essere "dispensatore di perdono e della misericordia di Dio". Può spiegare? C’è qualche esempio particolare che si può raccontare a riguardo?

«Credo che l’esempio più probante sia proprio l’affermazione del segretario che gli è stato accanto per anni e che ha potuto testimoniare: «Paolo VI non aveva mai una parola di condanna per nessuno, sempre scusava (…). Diceva: “Io sono il primo a essere perdonato da Dio. Io non devo mai condannare nessuno, devo essere sempre il ministro del perdono”».  Egli sapeva non solo perdonare, ma anche chiedere perdono. La prova più commovente è nel suo Testamento dove, fin dalle prime righe, si preoccupò di "far memoria del perdono da chiedere a quanti io avessi offeso, non servito, non abbastanza amato; e del perdono altresì che qualcuno desiderasse da me".  E, in una nota, precisò accuratamente: “Chiedo perdono a quanti io avessi non fatto del bene. A tutti io do nel Signore la pace”».

Il suo Ritratto per le Edizioni Ares si intitola: “Paolo VI. Il papa del dialogo e del perdono”. Perciò al “perdono”, lei aggiunge anche il “dialogo”. Perché? Cosa significava dialogare per papa Montini? Con chi dialogava e a quale scopo?

«Ciò che più mi ha impressionato, delineando il ritratto di Paolo VI, è questa intensa testimonianza di un suo caro amico, il filosofo Jean Guitton: «Paolo VI aveva il dono dell’adattamento immediato a ogni persona, che era da lui intuita nella sua intimità temporale ed eterna. Quando Montini era solo con un essere, si aveva l’impressione di essere soli con lui, si diventava il suo universo; egli non aveva fretta, il tempo non scorreva più, era come vivere un’eternità in un istante... Talvolta spingeva così a fondo il suo rispetto per l’altro, fosse anche il suo avversario, che mi chiedevo se aveva preso come regola: “Ama il tuo lontano come te stesso!”». Non si tratta dunque di individuare gli interlocutori del suo dialogo: dato che ogni interlocutore (soprattutto il “lontano”!) diventava “il suo universo”, il suo “prossimo”».

Il giorno della Trasfigurazione del 1964, Paolo VI pubblicò "Ecclesiam Suam" ("La Chiesa è Sua", cioè: di Cristo), la sua prima Enciclica in cui si parla ampiamente del rapporto tra Chiesa e mondo. Montini lo definisce come un rapporto di "reciproca attrazione" e parla di “un’immensa simpatia per il mondo”. In che senso? Come vedeva papa Montini il rapporto tra la Chiesa e il mondo?

«Per Montini la qualità del rapporto Chiesa-Mondo è tutta compresa in quel “sua” (cioè, “di Cristo”) che fa della Chiesa «la madre amorevole di tutti gli uomini e della salvezza». Nella Chiesa, infatti, e per suo mezzo, si deve realizzare quell’annuncio evangelico che dice: “Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio”: la Chiesa è dunque il luogo storico dell’abbraccio che Dio vuol dare ad ogni uomo. Possiamo dire che il sogno di Paolo VI era una Chiesa in cui tutti potessero sentirsi amati, e che i cristiani attuassero davvero quel bellissimo programma che aveva già delineato quand’era Arcivescovo di Milano: «Noi ameremo tutti… Ameremo il prossimo, e ameremo i lontani. Ameremo la nostra patria e ameremo quella degli altri. Ameremo i nostri amici e ameremo i nostri nemici. Ameremo i cattolici, ameremo gli scismatici, i protestanti, gli anglicani, gli indifferenti; i musulmani, i pagani, gli atei. Ameremo tutte le classi sociali, ma specialmente quelle più bisognose di aiuto, di assistenza, di promozione. Ameremo i bambini e i vecchi, i poveri e gli ammalati. Ameremo chi ci deride, chi ci disprezza, chi ci osteggia, chi ci perseguita. Ameremo chi merita e ameremo chi non merita di essere amato. Ameremo i nostri avversari: come uomo, nessuno vogliamo nemico. Ameremo il nostro tempo, la nostra civiltà, la nostra tecnica, la nostra arte, il nostro sport, il nostro mondo. Ameremo studiandoci di comprendere, di compatire, di stimare, di servire, di soffrire. Ameremo col cuore di Cristo: Venite a me, voi tutti... Ameremo con l’ampiezza di Dio: così Dio ha amato il mondo...».

Paolo VI è stato appunto il "Timoniere" del Concilio Ecumenico Vaticano II in cui credette fortemente sino alla fine. Nonostante le resistenze di chi avrebbe preferito terminare la “santa avventura”, a tre mesi dalla sua elezione, Paolo VI riconvocò il Concilio. Come mai? Quale urgenza vedeva per la Chiesa? E quale era il suo principale obiettivo?

«Subito dopo l’elezione Paolo VI si premurò di dichiarare: «La parte preminente del nostro Pontificato sarà occupata dalla continuazione dei Concilio Ecumenico Vaticano II, al quale sono fissi gli occhi di tutti gli uomini di buona volontà. Questa sarà l’opera principale, per cui intendiamo spendere tutte le energie che il Signore ci ha dato». Lo riprese con la decisione di attuare fino in fondo quel che aveva già chiesto prima ancora di essere Papa: «L’argomento unitario e comprensivo di questo Concilio e tutto l’immenso materiale preparato dovrebbe compaginarsi intorno a questo ovvio e sublime suo centro: la santa Chiesa». La Chiesa, la sua missione e il suo dialogo col mondo erano gli obiettivi che più gli stavano a cuore. Diceva che il Concilio Vaticano II era e doveva restare «un atto solenne d’amore per l’umanità», ma «nella assoluta convinzione che Cristo è necessario e vero».

Proprio su questo punto, ovvero sul rapporto con il mondo, si giocò il grosso equivoco del suo pontificato. Ovvero la netta divisione tra i molti che premevano perché la Chiesa si decidesse a nuove aperture e cedimenti e quelli che, invece, invocavano sconfessioni, chiusure e condanne. Per gli uni Paolo VI era “troppo chiuso” e per gli altri “eccessivamente aperto”. In tutto questo: dove si collocava il Papa del Concilio Vaticano II?

«Paolo VI si trovò a dover guidare un’Assemblea Conciliare, già molto polarizzata, che aveva un immenso bisogno di essere ascoltata, ma anche di essere guidata con fermezza. Riuscì a portare a buon fine la difficile impresa, ma le tensioni si ripresentarono subito in fase di attuazione dei decreti emanati dal Concilio. Così Paolo VI si trovò impegnato a resistere strenuamente a una duplice pressione: quella di chi invocava “aperture ad ogni costo” e in ogni campo (liturgico, dogmatico, morale, disciplinare) e quella di chi resisteva testardamente ad ogni cambiamento. I primi lo accusavano di mancato coraggio e lo accusavano di temporeggiare, i secondi lo guardavano con sospetto e lo accusavano di essere incerto e cedevole. Ma Paolo VI non rinunciava ad attendere pazientemente, anche se pochi capivano che Egli aveva sempre e soltanto un unico scopo: l’accurata valutazione dei problemi in modo da poter trasmettere la verità con tutta la necessaria carità e usare la necessaria carità senza mai ledere la verità».

Quando ancora era cardinale di Milano, parlando appunto del Concilio alle porte, in una lettera al Suo Venerato maestro e amico padre Giulio Bevilacqua, scrisse: “Una ruga di tristezza non solca forse la sua fronte? E noi forse ne conosciamo il segreto; ma la vogliamo distendere oggi quella ruga; deve scomparire. Si, caro Padre, abbiamo capito. Cristo solo, Cristo vivo!”. A cosa si riferiva? Di quale tristezza e preoccupazione sta parlano Montini?

«Si trattava di una profonda preoccupazione che Montini aveva assimilato dallo stesso P. Bevilacqua (suo venerato maestro) e che egli condivideva totalmente: non dimenticare mai che la Chiesa non ha altro scopo che annunciare “Cristo solo, Cristo vivo”. Per comprenderla e gustarla fino in fondo, basta rileggere due bellissimi testi cristologici di Paolo VI che esprimono tale preoccupazione in forma di preghiera, di lode, di canto e di ammirazione gioiosa.  Il primo si trova in un discorso da lui pronunciato durante l’Udienza Generale del 3 febbraio 1965 e il secondo nel discorso pronunciato a Manila il 29 dicembre 1970. Quest’ultimo si conclude appunto con un grido: «Ricordate: questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra (e per tutta la fila dei secoli  Ricordate e meditate: il Papa è venuto qua fra voi, e ha gridato: Gesù Cristo!».

Uno dei momenti più sofferti del suo pontificato fu la pubblicazione della sua Lettera Enciclica Humanae Vitae: fu contestatissima, c’è chi arrivò a definirla il "suicidio della sua popolarità". Probabilmente fu anche così, visto che scatenò una forma di rifiuto e di disprezzo il cui eco giunge oggi sino a noi. Come reagì il Pontefice? Ebbe mai ripensamenti o segni di cedimento sul tema?

«È bene riportare interamente il testo citato nella domanda, che è del card. Albino Luciani, che sarà il suo immediato successore: «Qualcuno ha detto che l’Humanae vitae è stata un suicidio per Paolo VI, il crollo della sua popolarità e l’inizio di critiche feroci. Sì, in un certo senso, ma egli l’aveva previsto e, sempre con san Paolo, s’era detto: “È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?... Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo» (Gal 1, 10)». E un altro grande teologo, il card. Journet, disse: «Il papa non ha preso la sua decisione per compiacere i tanti, ma di fronte a Dio, con gli occhi negli occhi di Gesù. Solo, come nel giardino degli Ulivi». Il Papa ebbe certamente molta pena per le reazioni di tanti alla sua enciclica, ma non ebbe mai né dubbi  né cedimenti. Furono  “i Santi” viventi di allora a confortarlo e rassicurarlo: tra essi ricordiamo P. Pio da Pietrelcina e il futuro san Giovanni Paolo II».

L’Humanae Vitae non fu però un caso isolato. Un altro fronte molto sofferto per Paolo VI fu la riforma liturgica attuata nel post-concilio: i difensori della liturgia preconciliare lo additavano come il responsabile ultimo delle “innovazioni più sconsiderate” mentre i “progressisti” lo tiravano continuamente per la giacchetta. Si può dire che Lui rispose alle polemiche con due bellissimi gesti d’amore: l’enciclica “Mysterium Fidei” e il “Credo del Popolo di Dio?

«I documenti conciliari e le riforme proposte in campo liturgico non sono “sconsiderati”. Ma non si può negare che furono poi sconsiderate alcune “sperimentazioni selvagge”, alcuni abusi scriteriati, introdotti con furbizia, e alcune interpretazioni teologiche “prive di santità”. Con quest’ultima espressione mi riferisco al giudizio di un grande teologo come Henri de Lubac che ha commentato così certi esiti del post-concilio: «Il dramma del Vaticano II consiste nel fatto che invece di essere stato preso in mano dai santi, come fu il Tridentino, è stato preso in mano dagli intellettuali. E soprattutto è stato monopolizzato da molti teologi, il cui teologare partiva dal preconcetto di “aggiornare la fede alle esigenze del mondo”, e di emancipare la Chiesa da un presunto stato di inferiorità rispetto alla società moderna. Quindi la difficoltà del post-concilio è da ricercare nell’intellettualismo della teologia, nella scissione tra teologia ed esperienza cristiana, nella separazione tra teologia e santità (…). Il luogo della teologia cessa di essere la comunità cristiana e diventa l’interpretazione dei singoli».
In questo senso la più bella e utile reazione di Paolo VI fu quella di riaffermare la dottrina con precisione, con bellezza, con certezza: da questo punto di vista la proclamazione di Maria “Madre della Chiesa”, l’enciclica Mysterium Fidei (con cui volle proteggere l’intatta fede nell’Eucaristia, che molti volevano ridurre a simbolo, carico di significati, ma povero di sostanza divina) e il Credo del popolo di Dio sono tra i più grandi doni che il santo Pontefice ci ha lasciato».

Di Paolo VI tutti ricordano la celebre e terribile frase che ebbe a pronunciare il 29 giugno del 1972 in un’omelia davanti al corpo diplomatico: “Il Santo Padre ha la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”. Forse, invece, solo in pochi ricordano i  numerosi e accorati messaggi che da quel momento il Pontefice continuò a rivolgere a “quei cristiani che sembrano accanirsi più degli altri contro la Chiesa, loro Madre”. A chi e a che cosa si riferiva? …forse ricordarne qualcuno può essere utile ancora oggi?

«Che la Chiesa debba sempre fare attenzione al “fumo di satana” che può penetrare nelle fessure del Tempio, è una preoccupazione ricorrente nella storia. Anche ai nostri giorni il Papa non ha temuto di accennare a questo rischio, che può essere vinto solo con la preghiera e con una intelligenza obbediente. Allora Paolo VI si riferiva innanzitutto a coloro che abbandonavano e tradivano la loro vocazione sacerdotale e/o consacrata e a coloro che “non si fidavano più della Chiesa”, preferendo affidarsi “al primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita”.
E si riferiva anche a quel mondo variegato (per altro ancora operativo) di cosiddetti intellettuali cristiani e di “professori” che trasmettevano le loro interpretazioni e le loro “ricerche” più che la vera dottrina. Oggi l’avvertimento andrebbe ripreso ed esteso a tutti coloro che si sforzano di trovare varchi percorribili tra la vera dottrina e gli accomodamenti pratici. Come Paolo Vi ci ha insegnato, la carità senza verità e la verità senza carità restano ancora delle malattie ecclesialmente rischiose».