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TRUMP E ASSAD

In Siria rinasce l'asse Usa-Israele-Sauditi

In poche ore è cambiato tutto: l'amministrazione americana che voleva lasciare Assad al suo posto lo ha scaricato e bombardato. L'azione militare è stata molto limitata, ma il significato politico è grande. Anche nei mesi che hanno preceduto l'attacco, gli Usa hanno rinsaldato i rapporti con Arabia Saudita e Israele, i cui interessi sono in rotta di collisione con quelli di Assad.

Editoriali 08_04_2017
Trump con il ministro della difesa saudita

In poche ore è cambiato tutto: l'amministrazione americana che voleva lasciare Assad al suo posto lo ha scaricato. Sono state le immagini dei bambini morti in conseguenza all'inalazione del gas di armi chimiche (di origine peraltro non ancora verificata) a far ribaltare il tavolo in Siria. Così il presidente ex-amico dei russi ha ordinato il il blitz con i missili e adesso sarebbe pronto anche ad entrare in guerra in Siria contro Mosca se si ripeteranno episodi del genere. È grosso modo questa l'idea che ci siamo fatti ascoltando le vicende delle ultime ore in Medio Oriente. Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano davvero così? E - soprattutto - siamo sicuri che sia successo tutto così all'improvviso?

Con Donald Trump il problema è sempre lo stesso: delle sue azioni ciascuno tende sempre a vedere solo quello che gli pare. Così - mentre da settimane tutti i riflettori erano accesi per indagare fin nei minimi dettagli i rapporti tra l'entourage del presidente e Mosca - passavano via come se nulla fosse tutta una serie di passi compiuti con unobiettivo preciso: rinsaldare lo storico asse tra Washington e Riyad. Sarebbe bene ricordare, infatti, che la frenata di Obama all'ultimo momento sui raid in Siria nel 2013 non fu presa proprio benissimo dall'Arabia Saudita. E il successivo accordo sul nucleare iraniano ancora meno. Così, dal primo giorno in cui si è insediato alla Casa Bianca, re Donald ha messo nel mirino proprio l'intesa sul nucleare (guarda un po' raggiunta proprio con un ruolo importante giocato da Mosca...). Poi ha stilato un executive order sulla chiusura delle frontiere tagliato su misura per colpire l'Iran e lasciare fuori i sauditi, nonostante gli autori degli attentati dell'11 settembre 2001 proprio da lì venissero. In marzo poi - ricevendo alla Casa Bianca il principe Mohammed bin Salman, che a Riyad è il ministro della Difesa - ha parlato «svolta storica» nei rapporti tra i due Paesi. Ed è vero che Trump ha l'aggettivo facile. Però è un dato di fatto che il principe è tornato a casa incassando l'ennesimo sblocco di una fornitura di armi americane, da utilizzare nella guerra nello Yemen. 

Ma il fatto più interessante è avvenuto durante la conferenza stampa della visita di Netanyahu a Washington: «Per la prima volta nella mia vita e per la prima volta nella vita del mio Paese – aveva detto con uno strano entusiasmo il premier israeliano - i Paesi arabi della regione non guardano a Israele come a un nemico ma sempre di più come a un alleato. E io credo - aveva concluso rivolgendosi a Trump - che, sotto la tua leadership, questo cambiamento in corso nella regione crei un'opportunità senza precedenti per rafforzare la sicurezza e far avanzare la pace». Secondo voi di quali Paesi arabi stava parlando quel giorno Netanyahu? Non certo della Siria e del Libano... Il punto è che l'alleanza di fatto tra Israele e l'Arabia Saudita, in funzione anti-iraniana, è qualcosa che oggi non viene nemmeno più nascosto in Medio Oriente. E da dove sono arrivate ieri le reazioni più entusiaste al raid missilistico deciso da Donald Trump? Proprio da Gerusalemme e da Riyad.

E allora la domanda diventa: come si poteva pensare che tutto questo percorso, prima o poi, non entrasse in rotta di collisione con la questione Siria? Sono due direttrici opposte: non è possibile con una mano corteggiare gli al Saud e Netanyahu smantellando l'accordo sul nucleare iraniano e dall'altra lasciare mano libera all'esercito siriano, sostenuto dalle milizie di Hezbollah oltre che dall'aviazione russa, nella riconquista del Paese. Non c'è bisogno di scomodare complotti, sono due posizioni che, molto semplicemente, non possono stare insieme.

La verità è che la crisi scatenatasi intorno alle immagini delle vittime delle armi chimiche a Khan Sheikhun non ha fatto altro che portare questo nodo al pettine. Vuol dire che Trump ha scelto la guerra a tutto campo in Siria? E che davvero siamo sull'orlo di uno scontro armato tra Stati Uniti e Russia? Il tipo di azione compiuto l'altra notte non sembrerebbe affatto suggerirlo: l'azione americana ha preso di mira un unico obiettivo, colpito con missili sparati dal mare in un solo raid e pare anche avvertendo in anticipo Mosca (il che spiegherebbe i danni molto limitati). Però il segnale politico lanciato da Trump è chiarissimo: la fase iniziata nell'autunno 2015 con l'intervento dell'aviazione russa a sostegno di Assad per Washington è finita. Se negoziato sulla Siria deve essere, non può più avvenire con la Russia da sola a dare le carte e il jolly in mano a Damasco. Del resto l'intesa di Astana - con l'improbabile coabitazione tra Ankara e Teheran - è già naufragata da settimane: nelle ultime settimane tra Idilib, Homs e i sobborghi della capitale la battaglia è riesplosa cruenta su più fronti.

«Quella in Siria è soprattutto una guerra per procura fomentata da interessi regionali. Da sottolineare: interessi e divergenze regionali e poi anche internazionali», ricordava appena due giorni fa in un'intervista al Sir il nunzio apostolico a Damasco, il cardinale Mario Zenari. Era del tutto illusorio pensare che Trump restasse fuori da questo tipo di dinamiche. Ma non è affatto detto che prenderne coscienza non aiuti a trovare più in fretta una soluzione.