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EFFETTI DEL COVID

Il virus non ferma le guerre, ma riduce le spese militari

La pandemia da Coronavirus non ha fermato i conflitti più sanguinosi, come in Libia e Afghanistan. Il crollo delle economie rischia di innescare maggiore bellicosità tra gli Stati. Intanto, la scarsità delle risorse sembra indirizzare, come in Corea del Sud, al taglio dei fondi militari. Una scelta che tuttavia potrebbe rivelarsi un boomerang, per motivi economici, occupazionali e di difesa degli interessi nazionali.

Attualità 27_04_2020 English Español

Nella ricca messe di analisi sulle conseguenze del Coronavirus spiccano le valutazioni circa gli effetti “positivi” della pandemia sui conflitti. In molti valutano che il timore del contagio abbia interrotto le guerre in corso mentre l’autorevole Foreign Affairs si chiede se il virus promuoverà la pace nel mondo.

Più che immaginare un pacifismo diffuso, l’ipotesi avanzata è che la condizione di debolezza economica e sociale delle grandi potenze scaturita dall’epidemia possa rendere la classe politica meno incline a privilegiare gli interessi oltre confine e più disposta a risolvere le controversie con negoziati invece che utilizzando politiche muscolari.

Meglio però precisare che il virus non ha fermato i conflitti, come si evince prendendo in esame quelli più sanguinosi e noti. In Siria lo stop ai combattimenti nella provincia nordoccidentale di Idlib è in vigore dal 5 marzo in base alla tregua sancita dagli accordi tra russi e turchi, non a causa del virus. Anzi, gli Emirati Arabi Uniti sono pronti a pagare tre miliardi di dollari a Damasco per indurre Assad a riprendere l’offensiva a Idlib contro le milizie jihadiste sostenute dalla Turchia. Assad non intende entrare in collisione con la Russia, sua grande protettrice, ma in queste valutazioni politiche e strategiche il Covid-19 non c’entra nulla.

In Afghanistan i talebani hanno respinto l'offerta di un cessate il fuoco durante il Ramadan avanzata dal presidente Ashraf Ghani. “Mentre la vita di migliaia di prigionieri è messa in pericolo dal Coronavirus, chiedere un cessate il fuoco non è né razionale né convincente”, ha affermato Suhail Shaheen, uno dei portavoce degli insorti, accusando il governo di “ostacolare il processo di pace”.

La tensione è alta da settimane tra Kabul e i ribelli, con i talebani che continuano la loro offensiva contro le forze afghane in tutto il Paese pretendendo la liberazione di tutti i loro compagni prigionieri. Liberazione prevista dal processo di pace avviato con l’accordo tra Usa e talebani in Qatar. A Kabul, dunque, il virus è solo un ulteriore pretesto che consente agli insorti di chiedere la scarcerazione di terroristi e miliziani.

In Libia, il conflitto a noi più vicino imperversa con una violenza senza precedenti. Il governo di Tripoli, spalleggiato da turchi e milizie siriane arruolate da Ankara, è al contrattacco su tutti i fronti: ha riconquistato l’ovest della Tripolitania e punta ora a riprendersi i territori a sud di Tripoli.

Insomma, il virus non porta pace, né ci sono indizi che possa ridurre la conflittualità globale. Anzi, considerando che il crollo delle economie mondiali che si prefigura vedrà aumentare la povertà è facile ipotizzare un’escalation della lotta per le risorse. Questo significa maggiore rischio di conflitti tra Stati ma anche di insurrezioni e disordini popolari.

Sembra invece certo che la necessità di dedicare risorse finanziarie al rilancio dell’economia e della produttività, oltre che ad assistere i ceti più colpiti dalla crisi determinata dal Coronavirus, indurrà molti Paesi a ridurre molte spese previste nei bilanci statali, incluse quelle militari.

Il primo esempio ufficiale giunge dalla Corea del Sud che ha annunciato tagli per il 2020 dovuti alle conseguenze economiche del Covid-19. Seul prevede un calo del Pil limitato all’1,48%, mentre i consumi privati sono crollati del 6,4%, l’export si è contratto del 2% e l’import del 4,1%. Il governo sudcoreano ha stanziato un fondo costituito con risorse prelevate dai diversi ministeri, tra cui 738 milioni di dollari tagliati alla Difesa, per il 79% relativi all’acquisto di armi ed equipaggiamenti e per il 21% alle spese di gestione e mantenimento. Il taglio ammonta all’1,75% del bilancio per la Difesa del 2020 che era stato aumentato quest’anno del 7,4% rispetto al 2019 raggiungendo i 42 miliardi di dollari. Il Ministero della Difesa ha minimizzato l’entità dei tagli, affermando che l’impatto del Covid-19 aveva già provocato una riduzione delle attività militari e ritardi nei programmi di acquisizione di armamenti, navi da guerra, elicotteri, caccia F-35 e i nuovi KFX prodotti localmente.

Provvedimenti simili a quelli assunti da Seul, ma molto più consistenti in termini percentuali e di importi, riguarderanno con ogni probabilità molti altri Stati colpiti ben più pesantemente della Corea del Sud dal Covid-19 in termini economici.

Le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi) prevedono quest’anno in Europa riduzioni del Pil tra il -7,5% e il -12%. La società di consulenza Avascent, specializzata nel settore Aerospazio e Difesa, ha stimato tagli complessivi ai budget della Difesa europei compresi tra i 21 e i 56 miliardi di euro: facile immaginare che le decurtazioni maggiori si registreranno nei Paesi più colpiti, Italia in testa. Di fatto si tratterrebbe di tagli tra due e cinque volte maggiori di quelli che si registrarono agli stanziamenti militari europei in seguito alla crisi finanziaria del 2008.

Tagliare le spese militari, specie quelle legate all’acquisto di nuovi mezzi e armamenti, potrebbe però rivelarsi un boomerang soprattutto per quegli Stati che hanno un’importante industria nel settore Aerospazio e Difesa, come è il caso dell’Italia e delle maggiori potenze economiche europee. Tagliare le commesse delle forze armate significa compromettere migliaia di posti di lavoro che richiederebbero interventi pubblici quali cassa integrazione o indennità di disoccupazione con costi certo superiori ai fondi recuperati tagliando risorse alle forze armate.

Anzi, la crisi che per colpa del virus sta devastando tutto il settore turistico e dei trasporti, incluse crociere e compagnie aeree, avrà ripercussioni anche sull’industria aeronautica e cantieristica.

Facile prevedere che nei prossimi anni non verranno acquistate molte navi da crociera o traghetti né aerei di linea, ragion per cui il mantenimento dei posti di lavoro in aziende di grandi dimensioni quali Fincantieri e Leonardo (ex Finmeccanica), con tutto il loro gigantesco indotto di piccole e medie aziende (fornitori e subfornitori), dipenderà in larga misura dalle commesse militari acquisite dalle forze armate nazionali e da clienti stranieri: commesse di navi da guerra, elicotteri, aerei da combattimento, addestramento e trasporto.

Anche in termini operativi ridurre o azzerare la presenza dei contingenti militari italiani presenti all’estero nei teatri di crisi, come chiedono alcuni degli esponenti del Movimento 5 Stelle e del mondo pacifista, rischierebbe di tradursi in un clamoroso autogol. L’epidemia non azzererà le tensioni internazionali. E, passata la pandemia, ritroveremo - forse ingigantiti - i problemi che abbiamo lasciato prima che la nostra politica e i nostri media decidessero di occuparsi solo di Covid-19.

Un mondo in crisi economica forse vedrà il processo di globalizzazione rallentato, ma certo più selvaggio e senza esclusione di colpi. Meglio quindi non ridurre le capacità di difenderci e di tutelare gli interessi nazionali.