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ALABAMA

Il "trumpista" batte il candidato di Trump

Elezioni primarie in Alabama per le suppletive al Senato. Il candidato di Donald Trump perde contro Roy Moore, conservatore religioso e dalla forte tempra appoggiato da Steve Bannon e dalla base movimentista dei repubblicani. Il candidato "trumpista" batte quello di Trump e riapre la discussione sullo strano fenomeno della destra Usa.

Esteri 01_10_2017
Roy Moore

Roy Moore è l’arma dei Repubblicani in Alabama. Sarà lui l’uomo che il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Partito Repubblicano) cercherà di mandare a Washington. Al ballottaggio seguito alle primarie del 15 agosto, il 26 settembre ha battuto Luther Strange, avvocato, uno dei due senatori Repubblicani dell’Alabama nel Congresso federale, ma mai eletto. Come di prassi, era infatti stato nominato pro tempore dal governatore dell’Alabama Robert J. Bentley per colmare la vacanza creata dall’allora senatore Jeff Sessions nominato ministro della Giustizia. Ora però servono le elezioni.

Il 12 dicembre, Moore, classe 1947, sfiderà l’avvocato Doug Jones, vincitore delle primarie del Partito Democratico. Avvocato anch’egli, Moore ha presieduto la Corte Suprema dell’Alabama dal novembre 2000 al novembre 2003 quando fu costretto a lasciare per non avere abbattuto il monumento ai Dieci Comandamenti fatto erigere nell’edificio che a Montgomery ospita gli uffici giudiziari federali. Riuscì però a farsi rielegge nel 2013 solo per venire di nuovo sospeso nel maggio 2016: continuava a vietare il “matrimonio” omosessuale in Alabama nonostante la liberalizzazione decretata dalla Corte Suprema federale il 26 giugno 2015.

Adesso il suo è un caso nazionale. Perché da un lato su Luther Strange ha puntato Donald J. Trump; è stato proprio a un comizio per Strange, a Huntsville, che il presidente se l’è presa (di per sé en passant) con gli “atleti del dissenso”. Con Strange si è quindi schierato anche il vicepresidente Mike Pence (antropologicamente e culturalmente più prossimo a Moore, ma si è mai visto un vice che sconfessi così il presidente del Paese più potente del mondo?) e soprattutto l’establishment del GOP. Dall’altro lato, al fianco di Moore è calata la “base” movimentista del conservatorismo: anzitutto Steven K. Bannon, già uomo di fiducia di Trump, messo alla porta in agosto. Era insomma scritto Strange vs. Moore, ma si leggeva Trump vs. Bannon; anzi, Bannon contro Trump. Ma non è un dissidio personale.

Occorre prenderla alla lontana. L’elezione di Trump non fu “chimica dell’amore”, ma il mostro di Frankenstein. Su di lui finirono per convergere le variegate (e litigiose) anime della Destra americana: alcune entusiaste e altre con la pistola alla tempia, e sì, alcune presentabili e altre decisamente meno. A questo si aggiunse un certo mondo potente e danaroso che spesso viene confuso con la Destra solo perché spesso si confonde la Destra con il potere e con il denaro. E in più persino una fetta di elettorato sinistreggiante che, sinistrato dopo otto anni di Barack Obama, era praticamente disposto a tutto. Non fu una coalizione come quelle finemente cesellate, sapientemente coltivate e strategicamente dirette che portarono alla Casa Bianca Ronald Reagan (1911-2004) nel 1980 e George W. Bush jr. nel 2004, al secondo mandato. Meno ancora è stato un progetto. Laicamente parlando, è stato un miracolo.

Ora, di Trump tutto si può dire tranne che non abbia fiuto. Per amore o per forza, quell’ircocervo fatto di sensibilità diverse e talora antitetiche se l’è fatto andare bene, e ha fatto bene. Stante che nessuno è autorizzato a pensare che su certi princìpi Trump sia in malafede, la sovrapposizione (se non la confusione) di mondi arrivata alla Casa Bianca assieme a lui è il prezzo da pagare ‒ volentieri, pensano ora anche diversi non-trumpiani ‒ per cercare risultati importanti altrimenti impossibili. Capita, però, che qualche nodo venga al pettine.

Torniamo in Alabama e all’incidente frontale fra due delle componenti maggiori del “miracolo Trump”: l’establishment del GOP conservatore (entrato nel miracolo pistola alla tempia) e la “base” conservatrice del “movimento”, Bannon compreso. Un paradosso che si capisce solo ricordando che dire oggi “establishment del GOP” non è come averlo detto ieri. L’establishment odierno del GOP è infatti il risultato (di personale nuovo o d’influenza) della “base” movimentista divenuta “sistema”. Le battaglie di oggi sono insomma guerre civili dentro la Destra, mentre prima erano guerre coloniali per la conquista del Partito Repubblicano.

La campagna dell’Alabama l’ha vinta il “movimento” per un solo scopo: impedire che l’establishment odierno del GOP torni l’establishment non-conservatore di sempre, persino anti-conservatore, stregato da potere e denaro. A modo suo, ha persino avuto il suo fair-play. Due fatti lo mostrano. Il primo: Bannon ha combattuto Trump in nome di Trump. «Sono qui per appoggiare il presidente Donald J. Trump», ha detto. «Sono qui per appoggiare lui portando la gente di qui ad appoggiare il giudice Moore» perché «ritengo che Roy Moore sia l’uomo che rispetterà Donald Trump e che combatterà l’establishment». Forse ha ragione The Washington Post a dire che Bannon comprende il “trumpismo” meglio di Trump. Il secondo fatto: subito dopo la vittoria di Moore, Trump ha cancellato i tweet in suo favore congratulandosi con Moore.  Meschino? No, realista (come sempre): ora il candidato Repubblicano in Alabama è Moore e battere i Democratici in dicembre vitale. Forse però c’è persino altro.

Sconfitto Strange, forse ora Trump può tornare finalmente “trumpiano”. Il che insinua che prima non poteva. Perché? Forse perché i “poteri forti” di quel mondo di potere e denaro che sembra conservatorismo senza esserlo non lo permetteva. Trump un po’ ricattabile? Non è la prima volta che ne dà l’impressione.  È successo con il “caso Reince Priebus”, è successo con il “caso Anthony Scaramucci”, è successo con il “caso Bannon”.

Un retroscena poco noto sul licenziamento di Bannon quand’era Capo stratega della Casa Bianca torna a suggerirlo. Allora il suo nemico numero uno era il genero di Trump, Jared Kushner, consigliere anziano del presidente. Prima di essere silurato, Bannon premette su Trump affinché questi spostasse l’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, preludio al riconoscimento di Gerusalemme capitale (con buona pace di chi lo taccia di antisemitismo).  Lo ha rivelato Vanity Fair con un servizio rimbalzato ovunque, anche in Israele. In campagna elettorale, Trump aveva promesso a Benjamin Netanyahu di riconoscere Gerusalemme capitale. Non lo ha fatto e Bannon, fortemente filoisraeliano, ha insistito duro. A mettergli i bastoni fra le ruote è stato però proprio Kushner, ebreo (Bannon non lo è), che evidentemente non vuole Gerusalemme capitale, che evidentemente nutre interessi diversi da quelli dello Stato d’Israele, che evidentemente persegue una linea politica verso i palestinesi differente da quella di Bannon.

Si rafforza la convinzione di sempre. Il “trumpismo” è una bestia strana e Trump un animale bizzarro. A volte le due cose si sovrappongono, ma una parte del “miracolo” è che sono e restano diversi. L’altra parte del “miracolo” è che, per vie che nessuno avrebbe immaginato (e molti tantomeno auspicato), il minuetto fra Trump e il “trumpismo” sta (insospettatamente rispetto alle premesse) contribuendo a diffondere e a radicare nel Paese una cultura conservatrice che alcuni giustamente stentano a riconoscere rispetto ai canoni classici, ma che nondimeno sta combattendo la buona battaglia. Il caso “Roy Moore” paradossalmente lo dimostra. Fisiologico dunque che emergano franchi tiratori come Kushner. Fortunatamente l’esautorato Bannon guarda però più in alto, animando un’opposizione non a sua maestà ma di sua maestà. Il miracolo laico del mostro di Frankenstein (che non era cattivo) continua. Come tutti i miracoli talora appare surreale. Talaltra sembra persino che di esso si serva ben altro miracolo.